Il caso. Se i “regolamenti antifascisti” rappresentano il fallimento della sinistra italiana

goriLe elezioni si avvicinano e nei comuni di tutta italia stanno sbocciando “regolamenti antifascisti”, che in forme più o meno simili obbligano chi richiede uno spazio pubblico a sottoscrivere una “dichiarazione di antifascismo”. L’ultima in termini di tempo è la Bergamo del renziano candidato governatore Giorgio Gori: forse i rottamatori iniziano a far la ruggine e recuperano argomenti “vintage”? E quali sono le motivazioni, quali le forme e quali le conseguenze di documenti simili?

Più di quarant’anni fa Pasolini, rivolgendosi alla sinistra italiana di allora, si domandava perché questa rilanciasse trent’anni dopo la fine della guerra e del fascismo un’offensiva antifascista, invece di aggredire dalle fondamenta il nuovo totalitarismo, nascosto sotto le sembianze di una società democratica e di massa, l’incipiente globalismo. Insomma, chiedeva lo scomodo intellettuale, perché buttarla sul fascismo, invece di affrontare i temi dell’oggi?

Decenni dopo, il tema si ripropone identico. La sinistra che in tutta Italia invoca la “deriva fascista” della nostra nazione è una sinistra che anzitutto ammette la propria sconfitta politica, sociale e culturale. Già, perché ritenere che qualche sigla variamente organizzata abbia più influenza sulla società italiana di quanta ne abbia il Governo sarebbe una resa, se non fosse semplicemente ipocrita e strumentale.

L’attrito sociale che esiste e che è tra le prime, evidenti, emergenze italiane, non è certo originato dai nuovi “fascisti”, bensì da scellerate politiche interne ed estere della sinistra di governo. L’incapacità di governare i flussi migratori, l’incapacità di far funzionare lo stato sociale, l’incapacità di creare politiche occupazionali efficaci (nascoste da statistiche ingannevoli), l’incapacità di sostenere le famiglie. I diritti sono stabiliti, ma non garantiti nei fatti: questo porta a quell’attrito sociale che poi sfocia nell’anti-tutto.

La sinistra apre i giornali, legge i sondaggi, e scopre di non avere più elettori. Scopre oggi che da quasi vent’anni ha abdicato alla propria missione politica e sociale e che il suo elettorato se ne è accorto. Improvvisamente, sorge la necessità elettorale di “dire qualcosa di sinistra”, per ricordarsi di esistere. Non ha più strumenti per rispondere alle sfide della contemporaneità e così riprende le battaglie combattute settant’anni fa.

I regolamenti antifascisti, ovvero l’obbligo di sottoscrivere improbabili dichiarazioni di antifascismo per avere il diritto di manifestare o di ottenere spazi pubblici e financo alloggi comunali, sarebbero ridicoli se non fossero (ironicamente) anticostituzionali. E ciò non è solamente sbagliato, ma anche controproducente. La necessità di trovare un nemico che ricompatti il frastagliato fronte della sinistra italiana si risolve in un autogol che porterà più danni che vantaggi a chi propone provvedimenti simili. Dando, al tempo stesso, la facile occasione di ammantarsi dell’aura di perseguitati politici a quanti si vedranno negare gli spazi in questo modo.

Insomma, la sinistra dei diritti e delle battaglie civili concede un’imperdibile occasione ai propri avversari per combattere una battaglia di giustizia, legalità e civiltà. Il mondo si evolve rapidissimo e il PD cerca riparo dietro ANPI e sindacati; una ritirata fuori tempo massimo che, con provvedimenti illiberali e cortocircuiti ideologici, rende ancora più evidente il grottesco anacronismo culturale della sinistra italiana.

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Andrea Tremaglia

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