Cinema. Recensione o girotondo per “Napoli velata” di Özpetek

Giovanna Mezzogiorno

Dal parto dei femminielli al Cristo velato. È la “Napoli velata” di Ferzan Özpetek, dove la nuova metropolitana sostituisce il pino col golfo e il Vesuvio, diventando lo sfondo da presepe per il regno dei morti. Si sente che Özpetek e i suoi due sceneggiatori (Gianni Romoli e Valia Santella) hanno letto di corsa la letteratura su Napoli, mischiandola a un film scritto in accordo con l’assessorato al turismo. Ed hanno riempito lo schermo con quasi tutti gli attori disponibili – appartenenti alla città – con l’aggiunta di Isabella Ferrari che continua a fare Selvaggia di “Sapore di mare” personaggio scritto per lei da Enrico Vanzina nel 1983. La Ferrari è una lesbogallerista che divide lo schermo in coppia con una Mina Pastri in versione Andy Warhol. C’è Maria Pia Calzone che da ispettrice fa subito comprendere perché in Gomorra (la serie) hanno scelto di non avere poliziotti. C’è Anna Bonaiuto – Adele versione David Bowie invecchiato come moglie di Giulio Andreotti, che le canta alla città di Napoli: matrigna che li uccide tutti. C’è Luisa Ranieri, un po’ zoccola e un po’ zoccola che si chiama Catena e cerca di tenere tutto, c’è una veggente con aiutante nana che parla come Eduardo femminiello visto da Roberto De Simone dopo una indigestione da ‘a figlia d’’o marinaro. Manca Gianfelice Imparato, una assenza enorme, visto che ormai è una specie di Vesuvio in miniatura, e vale come portafortuna e gadget  – lo si può regalare a tempo determinato a parenti e amici, sia in quota Gomorra (il film) che come controparte di “bella Napoli” –. La protagonista è Adriana-Isabella-Giovanna Mezzogiorno che torna a Napoli per esercitarsi nella lingua, che fu di suo padre, dicendo frasi da “Un posto al sole”, tanto che a un certo punto Peppe Barra – stranamente sopra le righe e con l’affanno come lo vediamo e sentiamo da secoli – le dice: «questa storia è una telenovela». Poi però non si vede come in “Effetto notte” la finzione e Özpetek rincorso da Curzio Malaparte, ma il film va avanti. La vera missione di Giovanna è essere scopata, succede e lei cogliendone i benefici comincia a ridere per il centro storico di Napoli, passa e spassa con sorrisi, spoglia gente che somiglia ad Andrea – Alessandro Borghi Badedas: lui e pure il suo fantasma girano come in uno spot, petto nudo e spesso anche senza mutande come piacerebbe a Dolce&Gabbana se non ci fosse la Chiesa – l’uomo che l’ha scopata come nessuno mai; e lei che un po’ è sonnambula un po’ è zoccola – fondamentale è lo scambio sugli ex con Luisa Catena Ranieri la donna che ha reso Montalbano un uomo che non deve chiedere mai – un po’ è anche pazza a causa di un trauma infantile: sua madre (sempre Giovanna Mezzogiorno) e sua zia Anna Bonaiuto – due sorelle – si contendevano un uomo (suo padre) e lei (Giovanna Mezzogiorno) che ha assistito all’uccisione del padre e al suicidio della madre, ora si contende due fratelli: Andrea (che purtroppo muore il giorno dopo la sua migliore prestazione sessuale, con scene che fanno capire che Tinto Brass è vissuto invano, e che ormai il sesso etero è un tabù) e Luca – il fratello inesistente e geloso – che stando a casa di Adriana-Giovanna ne approfitta per darle due botte. Insomma c’è confusione in questa Napoli di turismo, monumenti e carnalità, dove i morti prendono la metropolitana e i vivi fanno arte. In mezzo c’è il poliziotto buono, Semola, innamorato e silenzioso, che ha il figlio muschillo che presto sarà pure paranzino, che ama Adriana-Giovanna ha letto Erich Fromm e sa aspettare, intanto si guarda i nudi della Mezzogiorno scattati di nascosto da Andrea la notte prima di morire. Lo so anche il racconto del film vi appare confuso, ma è tutto voluto per farvi capire come vede il mondo Ferzan Özpetek che vorrete picchiare già dopo i primi quindici minuti di film se siete Maurizio De Giovanni – che stranamente non appare tra gli autori del film anche se si sente che gli sceneggiatori lo leggono –, altrimenti anche prima. Si citano e male un paio di film di Stanley Kubrick e di Massimo Troisi. Sembrano gli appunti di Tiziano Sclavi ubriaco che li detta a Gigi D’Alessio che tutti sappiamo soffre per Anna Tatangelo e distratto si perde pezzi e ci infila il caffè e la tombolata, con i numeri e il loro significato spiegato ai milanesi. Alla fine canta Pietra Montecorvino, e non mancano i momenti “Remedios” (il ballo con la musica tipo Gabriella Ferri) e “polpette” (con la cucinata che distende e fa pensare alla nonna e/o mamma e/o infanzia), non ci sono rimandi a Istanbul perché per il regista «è simile a Napoli per il sentimento delle persone e per il loro atteggiamento, poi entrambe hanno il mare. Ci sono legami strani». Ha dichiarato proprio così. La confusione persiste.

Marco Ciriello

Marco Ciriello su Barbadillo.it

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