Rosati affronta infatti in queste pagine la spinosa questione della inarrestabile occidentalizzazione del Giappone da una prospettiva alquanto critica, e se vogliamo addirittura “tradizionale”.
Elemento portante della critica di Rosati è la dicotomia che rileva, in merito allo sviluppo delle società umane, fra evoluzione e involuzione: «Si parla di evoluzione – afferma – quando un paese innova la propria società aprendosi, senza però svendersi, a influenze esterne, e cerca di crescere mantenendo e talvolta riverendo la propria identità.»
Mentre si può parlare di involuzione quando una società rifiuta il passato «guardando con sufficienza alle proprie tradizioni, abbandonando i suoi costumi per indossarne altri che non è detto siano meglio di quelli troppo celermente abbandonati.»
Due sono le figure che principalmente Rosati prende a modello quali incarnazioni di queste contrapposte istanze: Yukio Mishima, il samurai-dandy, o forse il dandy-samurai, che amava la letteratura europea e trafficava con Moravia, ma che nondimeno con il suo estremo sacrificio commesso secondo la formula tradizionale del seppuku cercò di restituire al Giappone il suo «autentico volto» ormai quasi del tutto sfigurato dall’invasione yankee, e Haruki Murakami, il quale troppo spesso nei suoi scritti «dipinge un Giappone che sa molto, forse troppo d’America», dimostrando al contempo «un totale disinteresse per la propria cultura.»
Se vogliamo, il ragionamento fatto da Rosati sugli sconvolgimenti apportati in Giappone con l’entrata, dopo la sconfitta bellica, della cultura e del way of life occidentale, lo si potrebbe fare oggigiorno riguardo le orde di “migranti” che premono sulla nostra nazione.
Genti di cui la gran parte, lungi dal conservare i propri usi e costumi, ha invero introiettato gli aspetti più deteriori dell’american way of life: quelli della subcultura hip hop, ad esempio, nelle sue frange più grette e degradanti. Basti vedere il fenomeno mediatico “Bello Figo“, sicuramente caricaturale, ma indicativo di quella tendenza brutalmente neo-primitivistica, abbastanza preoccupante, che tanto si sta facendo largo da qualche tempo anche nel nostro tessuto sociale.
Un libro, questo di Rosati, dunque, che seppur pubblicato ben dodici anni or sono, è tutt’ora di stringente attualità ed utilità, soprattutto al fine di comprendere le dinamiche in atto nell’era della globalizzazione avanzata, e sicuramente per tentare di sopravvivergli, adoperando gli strumenti sempre necessari del vaglio critico e della preparazione culturale, e quando se ne abbia la possibilità, di giocare in contropiede per l’edificazione di forme culturali attive, capaci sì di integrare realtà differenti, ma anche e soprattutto di conservare un profondo e reale radicamento ad un genius loci e ad una tradizione.
*Perdendo il Giappone di Riccardo Rosati (Armando Editore, Collana Scaffale aperto, pgg. 64, euro 8)