Il racconto (di C. Malaparte). Il corpo straziato di Mussolini a Piazzale Loreto e la folla sudicia

Mussolini a Milano dove tenne l'ultimo comizio al Lirico nel 1944
Mussolini a Milano dove tenne l’ultimo comizio al Lirico nel 1944

Per gentile concessione della casa editrice Passigli, il quotidiano la La Verità ha pubblicato un testo di Curzio Malaparte sulla morte di Benito Mussolini che qui riprendiamo, dopo che i recenti articoli del professor Renato De Robertis dedicati al grande scrittore italiano su Barbadillo. I brani sono tratti da un capitolo inedito e incompiuto che avrebbe dovuto far parte del libro Mamma Marcia e che viene ripubblicato nella nuova edizione di Muss. Ritratto di un dittatore. Il volume arriva in libreria proprio nel pieno del cancan mediatico sulla memoria del fascismo

***

Giaceva supino sul marmo, le mani distese lungo i fianchi, gli occhi aperti. Lo avevano già spaccato, esplorato, vuotato, ricucito. Era come un sacco vuoto, un otre vuoto. Una forma di pelle vuota. Non aveva più né il cuore, né il fegato, né i polmoni, né gli intestini, più nulla. La testa era stata svuotata del cervello con cura meticolosa, come si vuota il guscio di un’ aragosta. Il suo viso era di un pallore quasi bianco. E qualcosa di nero era negli occhi aperti. Mi avvicinai, lo guardai negli occhi. Tremavo così forte, che dovetti appoggiarmi alla tavola di marmo.

Non avevo mai visto, prima di quel giorno, prima di quel momento, uno sguardo morto.

Non dico gli occhi, ma lo sguardo. Non gli occhi, ma quel che v’ era dentro. Avevo sempre creduto prima di allora che lo sguardo fosse qualcosa di impalpabile, una luce, uno splendore, un riflesso. Un moto dello spirito. In quel momento scoprii che lo sguardo è qualcosa di materiale, un po’ di materia viva. Era uno sguardo morto, un po’ di materia morta, rimasta in fondo agli occhi.

Era il suo sguardo intenso, profondo, il suo sguardo di quando era vivo, ma fermo, freddo, coagulato in fondo alle orecchie, fermo e fissato per sempre. Mi guardava come quando era vivo, ma senza batter le ciglia, senza muovere gli occhi.

Era il suo sguardo che riguardava, non i suoi occhi. Avrei forse potuto togliere, con un cucchiaio, quello sguardo dal fondo delle orbite, riporlo in un po’ di carta, portarmelo via.

Non era rimasto, in tutto quel corpo vuoto, che quel suo sguardo morto, quel suo sguardo straordinariamente intenso, profondo, fermo.

Mi guardava come mi aveva guardato tante volte, da vivo.

Con quella sua eterna domanda in fondo agli occhi, quella sua continua meraviglia, quella sua sottile paura. Quel suo disagio. Quella sua timidezza, talvolta dolce, femminea, talvolta dura, volgare. Era quello il suo sguardo. Lo sguardo più straordinario, più meraviglioso, che l’ Italia avesse avuto per tanti anni, per tutti gli anni in cui egli aveva guardato in faccia gli italiani.

Nessuno, né gli infermieri, né i periti settori che lo avevano tagliato, frugato, svuotato, ricucito, né i custodi dell’ obitorio, né i medici militari americani che erano andati all’ obitorio a prendere il suo cervello, a riporlo nella teca ad aria condizionata, per spedirlo in America, nessuno aveva osato chiudergli gli occhi, toccargli le palpebre, avvicinare la mano a quello sguardo, a quel po’ di materia morta che splendeva così meravigliosamente in fondo alle sue occhiaie. Era uno sguardo che faceva ancora paura. Non perché fosse cattivo, o severo, ma per la sua straordinaria fermezza, per quella sua fredda, dolcissima serenità. Per quella sua pazienza.

Nessuno aveva mai guardato gli italiani come li aveva guardati lui, da vivo.

Nessuno aveva mai saputo guardarli in faccia così serenamente, pazientemente.

Con un tale affettuoso rammarico. Era lo sguardo di un italiano che conosceva gli italiani.

Che sapeva che cosa sono gli italiani. Che conosceva il segreto del popolo italiano, di ogni italiano. Che conosceva il proprio segreto. Che sapeva fin dal principio, fin da quel giorno dell’ ottobre del 1922 in cui il suo orologio si era fermato, quale sarebbe stata la sua fine.

Egli aveva avuto sempre, anche nei giorni più felici, il sospetto della sua fine. Sapeva da che parte gli sarebbe venuto il colpo.

Quale mano gli avrebbe frugato nelle tasche. Quale tipo d’ uomo lo avrebbe ammazzato. Da quale casa, da quale famiglia, da quale strada, da quale città, da quale folla, sarebbe uscito l’ uomo che gli avrebbe sparato. Aveva sempre saputo che sarebbe finito in quel modo. Non per mano di un avversario aperto, leale, ostinato, ma di un piccolo uomo, di un essere insignificante, di un ragioniere ladro, di un povero imbecille, di un povero vigliacco.

Un giorno mi aveva domandato qual era lo scrittore italiano che aveva mostrato di conoscere meglio il popolo italiano.

«Dino Compagni», gli avevo risposto. Mi aveva domandato perché. Gli dissi per quel sospetto che Dino Compagni aveva dei suoi concittadini, e per quel suo rammarico che Corso Donati fosse stato ammazzato non da un italiano, ma da un «soldato straniero», da un catalano, sgariglio, con «lancia catelanesca nella gola», e per quella sua sentenza «cosa fatta capo ha».

Mussolini mi rispose che era una sentenza bellissima. E poi aggiunse che avrebbe preferito di morire per mano italiana che per mano straniera, benché fosse sicuro che non sarebbe stato un Bruto colui che lo avrebbe ammazzato, ma un uomo da niente. Aveva sempre sospettato quale sarebbe stata la sua fine, e più sospettava nei giorni del suo trionfo.

Non s’ era mai fidato di alcuno.

E non perché non si fidasse degli italiani, ma perché sapeva che lo avrebbero ammazzato a tradimento, in modo che nessuno avesse potuto soccorrerlo, né difenderlo. Mi curvai a guardarlo negli occhi.

Non c’ era più nulla in quel suo corpo vuoto, in quella sua testa svuotata del cervello. Più nulla, tranne quel suo sguardo fermo, sereno, paziente. Io gli dissi a voce bassa «povero Muss» e pensai a mia madre. […] Mi guardava come mi aveva guardato tante volte da vivo.

Ed io mi pentii, mi vergognai di non aver più cercato di vederlo, di parlargli, da quando mi aveva messo in prigione. Era dal 1932 che non lo vedevo da vicino, che non gli parlavo. E arrossivo di quel mio stupido orgoglio che mi aveva sempre trattenuto dal chiedergli di vederlo, di parlargli, dopo che ero uscito di prigione. Da tredici anni non lo avevo più visto, non gli avevo più parlato. «Povero Muss» gli dissi, con la voce stessa di mia madre. […]

Mi guardava sereno, paziente, affettuoso. Che m’ importava se aveva sbagliato, se aveva commesso errori crudeli e stupidi, se aveva portato l’ Italia alla rovina? Non m’ importava più nemmeno che avesse fatto piangere mia madre. Quel che m’ importava, era che fosse un vinto, che tutti lo avessero rinnegato, che lo avessero ammazzato come un cane, e appeso per i piedi, e coperto di sputi e di orina, in mezzo agli urli feroci di un’ immensa folla che fino a pochi giorni prima lo aveva applaudito, gli aveva buttato fiori dalle finestre.

Lo avevo visto appeso alla tettoia del distributore di benzina, in piazzale Loreto, in mezzo a quella sudicia folla, a quella folla di vigliacchi che lo insultava e lo sporcava di sputi, con i pompieri che ogni tanto, col getto delle pompe, lo lavavano degli sputi e del sangue e delle immondizie che la folla gli gettava addosso, nell’ aria afosa piena di un terribile odore di sporcizia e di morte. Non m’ importava nulla che avesse sbagliato, che avesse coperto l’ Italia di rovine, che avesse trascinato il popolo italiano nella più atroce miseria. Mi dispiaceva per tutti gli italiani, ma non per quella sudicia folla. E se anche quella folla di vigliacchi fosse stata composta di milioni e milioni d’ italiani, non mi sarebbe importato nulla. Mi avrebbe fatto quasi piacere pensare che quella sudicia folla aveva quel che s’ era meritato.

Era una folla non di vittime innocenti, ma di complici. Non m’ importava nulla che quella sudicia folla avesse le case in rovina, le famiglia disperse, e fosse affamata, poiché una simile folla se l’ era meritato. Tutti erano stati suoi complici.

Fino all’ ultimo. Anche quelli che lo avevano combattuto erano stati suoi complici fino al momento della disgrazia. Non m’ importava nulla che fosse stata la fame, la paura, l’ angoscia, a mutar quella folla d’ uomini in iene vili e feroci. Qualunque fosse la ragione che aveva mutato quella folla in  una sudicia turba che l’ aveva spinta a sporcare di sputi e di feci il suo cadavere, non m’ importava nulla. Ero in piedi sulla jeep, stretto tra quella folla bestiale. Cumming mi stringeva il braccio, era pallido come un morto, e mi stringeva il braccio.

Io mi misi a vomitare.

Era l’ unica cosa che potessi fare. Mi misi a vomitare nella jeep, e Cumming mi stringeva il braccio, era pallido come un morto e mi stringeva il braccio.

«Povero Muss» dissi a voce bassa, appoggiandomi con le due mani alla fredda tavola di marmo. V’ era nella sala dell’ obitorio un silenzio strano, freddo, liscio e freddo. Un silenzio fatto della pelle fredda e liscia di un cadavere. A un tratto udii un suono di voci lontane, uno strepito di passi nel corridoio, una porta che sbatteva chi sa dove. Non c’ era nulla di vivo in quella stanza, nulla, neppure una mossa, neppure il ronzio di una mosca. […] Nulla di vivo, di tiepido.

Soltanto allora mi accorsi che il cadavere era nudo. Mi sentii arrossire. Non osavo guardare le sue nudità. Era un pudore strano. […] Mi pareva di mancar di rispetto a quel morto, di fargli ingiuria. Sollevai lentamente una mano. Mussolini mi guardava fisso, con quel suo sguardo sereno, paziente, senza rancore, uno sguardo un po’ triste, di quella stessa tristezza che è negli occhi degli uomini e degli animali morti, degli uomini, e dei cani, dei cavalli morti. Sollevai lentamente la mano, l’ accostai al suo viso.

Sapevo che avrei spento per sempre quel suo sguardo meraviglioso, che avrei accecato per sempre quegli occhi così sereni, così nobili. Sapevo che il mio era un atto di pietà, non di paura. Non avevo paura del suo sguardo. Ma avrei dato la mia vita per non dover compiere quel gesto definitivo, per non doverlo accecare, per non dover accecare ognuno di noi, ogni italiano. Lentamente gli avvicinai la mano al viso, gli cercai le palpebre, feci forza con la punta delle due dita. Pareva che resistesse. Mi guardava fisso, con quel suo sguardo sereno. Feci forza, quasi gli strappai le palpebre umide di sotto l’ arco dell’ orbita, lentamente gli chiusi gli occhi, spensi per sempre quel suo sguardo sereno e buono. E di colpo, il buio invase la stanza.

Che m’ importava se negli anni del suo governo l’ Italia era diventata una buffonata, un paravento cinese sul quale erano state dipinte scene di battaglia e di trionfo, corone cesaree e trofei di vittoria, Ercoli gonfi di muscoli sotto cieli tumultuanti di nuvole alla Tiepolo, un paravento per nascondere un bidè? L’ Italia, più o meno, era sempre stata così: un mucchio di retorica, una folla di eroi osannanti, di oratori graeculi eloquenti un labirinto d’ intrighi e di corruzione. Sempre. […] L’ Italia è sempre stata così. Una minoranza di gente seria, scontenta, delusa, di fronte a un popolo in miseria, nell’ ignoranza, curvo sotto una banda d’ ignobili profittatori, di cortigiani, di traditori, di vigliacchi, di sbirri e di preti, di bravi e di spie.

Coloro che si indignavano delle miserie e ipocrisie e soprusi e violenze e corruzioni del tempo di Mussolini dimenticavano che quelle miserie ci son sempre state, in Italia. E se ne indignavano solo perché eran commesse in nome di Mussolini, ma al tempo stesso andavano rammemorando i tempi di Giolitti o di Orlando o di Nitti, o di Zanardelli, come tempi di onestà e di giustizia, dimenticando che fra quelli e i tempi di Mussolini la differenza era soltanto nel nome e nei pretesti.

Ma quel che più dava fastidio ai laudatori dei tempi passati, dei tempi della «cara piccola onesta proba giusta Italia», era l’ affetto del popolo per Mussolini, affetto di cui non aveva mai goduto nessuno degli uomini politici di quella cara piccola onesta proba giusta libera Italia. Forse il popolo italiano era in errore, forse mentiva.

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Curzio Malaparte

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