In Italia non si conosce l’America Latina, tanto meno nei giornali e nelle redazioni televisive dove il più delle volte i servizi vengono affidati a corrispondenti che risiedono negli Stati Uniti. I quali, di solito, non si muovono da Washington o New York e si affidano alla rilettura dei fatti che gli arriva da agenzie, siti internet e network televisivi a stelle e strisce. Un po’ come se la politica israeliana venisse seguita da Teheran e a “coprire” gli Usa fossero i giornalisti di stanza a Mosca.
Ma a produrre una sostanziale distorsione della realtà latino-americana non è solo un problema di “fonti” delle notizie, e neppure una visibile superficialità e ignoranza dei giornalisti. Come nel caso di altre aree geografiche e di altre tematiche contemporanee, il giornalismo mainstream si conferma succube del pensiero unico dominante per il quale ogni fenomeno va letto esclusivamente nell’ottica occidentale. Vale a dire secondo i canoni del liberalismo democratico/neoliberismo, con una spruzzata di ossessione maniacale per i diritti umani, l’incentivo alle migrazioni di massa e le teorie gender. Tutto il resto per loro è populismo da strapazzo, o peggio.
Negli ultimi mesi un caso emblematico è stata l’informazione offerta in Italia sulla crisi del Venezuela. A leggere i nostri quotidiani e ad ascoltare i telegiornali sembra tutto chiaro: a Caracas c’è una specie di dittatore – mezzo pazzo e mezzo buffone – che grazie alle forze armate e a non meglio precisate squadracce paramilitari tiene in scacco un intero popolo che vuole ribellarsi e ritornare nelle braccia sicure della democrazia liberale, va da sé filo-americana. Punto. Non ci sono altre possibili letture del fenomeno venezuelano.
Forse le cose stanno proprio così, però a meno di volersi bere la propaganda occidentale (certi articoli sembrano usciti dall’ufficio stampa del Dipartimento di Stato Usa) è difficile farsi un’idea precisa con una stampa così schierata e al tempo stesso così superficiale. Che definisce “eroe” (testuale) un poliziotto filo-opposizione che il mese scorso ha lanciato alcune granate contro la sede della Corte Suprema di Caracas e che attribuisce alla polizia governativa tutte le vittime degli scontri di piazza, quando invece i morti sono dall’una e dall’altra parte. Nelle scorse settimane un giovane “chavista” è deceduto dopo esser stato dato alle fiamme da un gruppo di oppositori, ma avreste cercato invano la notizia sui nostri quotidiani. Non c’era.
Il saggio di Lezzi e Muratore, due giovani ricercatori di sicuro valore, non si limita a fornire un quadro attendibile del progetto bolivariano lanciato all’inizio degli anni Duemila da Hugo Chàvez e dei successivi avvenimenti seguiti alla morte del caudillo di Caracas. In realtà il volume passa in rassegna tutte le “rivoluzioni populiste” che hanno scosso il continente latino-americano a cavallo fra i due secoli (dal neoperonismo kirchnerista in Argentina all’esperienza di sinistra moderata del Brasile, dagli esperimenti nazional-indigenisti di Bolivia ed Ecuador ai fallimenti populisti in Perù e Paraguay, fino all’esame dei “baluardi” conservatori del continente, vale a dire Cile e Colombia). E analizza i motivi che in molti casi, dopo oltre un decennio, hanno portato all’arretramento del progetto socialista e nazionale favorendo il ritorno delle élites conservatrici filo-statunitensi.
Scrivono gli autori: “Gli anni Duemila, anticipati dalla vittoria elettorale di Chávez in Venezuela, hanno dato inizio alla cosiddetta decade dorada, una fase di sviluppo economico e sociale senza precedenti nell’intero continente latinoamericano. La morte di Chávez, avvenuta il 5 marzo 2013, ha consentito l’inizio di una controffensiva liberale ai governi rivoluzionari che oggi mette a repentaglio le conquiste ottenute da lavoratori e minoranze etniche. Gli Stati Uniti continuano a guardare all’America Latina come al proprio cortile di casa, seguendo in pieno la dottrina Monroe e la fine dell’era Kirchner in Argentina, i problemi del duo Lula-Rousseff in Brasile e del delfino chavista Maduro si fanno sempre maggiori. All’orizzonte sembra mancare un ricambio generazionale dei vertici carismatici all’interno dei movimenti populisti del socialismo del XXI secolo che anche la Bolivia e l’Ecuador dovranno presto affrontare”.