La lettera. Caro Max Pezzali continua a suonare le note della nostra adolescenza

uomoragno2012Caro Max,

vorrei raccontarti un fatto strano: erano i primi del ’92 ed il Natale mi aveva appena portato in dono la cassetta di “Hanno ucciso l’uomo ragno”. Sono in macchina con mio padre che mi porta a scuola, gli chiedo di farmela sentire. Sarà che la musica non gli è mai interessata, e che tutto quello che era venuto dopo Edith Piaf era robaccia moderna, ma tant’è che il suo commento alla fine del Lato A mi lasciò sorpreso al pari di mio fratello: “Sono bravi questi ragazzi. Esprimono concetti non banali, ed hanno ritmo.” Io avevo 11 anni.

Che poi in fondo con quel giudizio aveva solo intuito quello che, più in la con gli anni, avrei capito anche io: dopo un trentennio di cantautori “impegnati”, assemblee di studenti con chitarra e capelloni a strimpellare di occupazioni, terzo mondo e fabbriche, era bastata la spensieratezza ed il gergo nuovo di chi canta l’amicizia, sale giochi e corse in moto ad accendere quella lampadina nella testa di mio padre, uomo di cultura profonda ma antisnobista intellettuale per eccellenza. Aveva capito che l’apparenza del disimpegno era l’unica strada per sdoganare valori nuovi, o meglio riabilitarne di antichi, senza incappare nei marchi a fuoco della critica inquisitoria.

E’ stato così, caro Max, che hai unito musicalmente due generazioni: chi entrava nell’adolescenza con un deca in mano e chi la sua l’aveva vissuta leggendo Salgari e galoppando con John Wayne. Con le tue copertine colorate ed i tuoi testi da fumetto, fiabe scanzonate che solo i poveri di cuore possono scambiare per canzonette.

Eppure c’è qualcosa che la critica, quella che se non vede rosso è tutta merda, non ti ha mai perdonato: più ti snobbavano, più tu avevi successo. Più loro ti rimproveravano il disimpegno ed i testi semplici, più tu dimostravi che non serve atteggiarsi a primula rossa per parlare ai ragazzi e riempire le piazze.

Hai cantato che la vita, con i suoi drammi e le sue gioie, e quindi il suo impegno, può esser ancora più vera in provincia, o al bar, può incappare nella droga e nella morte, ma non può prescindere dai sogni e dall’amicizia.

No caro Max, certa critica non ti perdonerà mai di non aver inseguito e mendicato la sua approvazione, di averla anzi semplicemente ignorata. Non ti perdonerà mai di aver, in un certo senso, sdoganato il fasciobar, di aver anteposto amicizia e famiglia alla lotta di classe, di aver riproposto al cuore di una generazione l’essenzialità delle cose semplici, di aver dato contro ai fighetti di provincia e di aver amato le regine del celebrità che a tutti, anche a loro trinariciuti, han fatto girare la testa all’alba dell’adolescenza tra i banchi di scuola. No caro Max, non vai bene per loro se ami “le birre scure e le moto alla James Dean”. Ma vai bene a noi, a tutti quelli che si sono visti bollare come superficiali da chi con mnemonica prosopopea ostentava il monopolio dell’impegno. Loro si, menti semplici.

Come se schernire le replicanti appoggiate al bancone con tacco alto e Martini non volesse dire fare critica sociale. Come se cantare di un amico scomparso pur senza essere un martire non significasse esplorare gli abissi del dolore del sentimento. La verità, caro Max, è che ti danno contro perché non sono mai riusciti a incasellarti nei loro compartimenti da materialismo storico: non sei fighetto o “pariolino”, ma non sei neanche “compagno”. Te ne stai la, con la tua moto ed i tuoi amici, emblema di una terza posizione della società italiana che per loro sa troppo di destra, poiché non odora di sinistra.

E ti detestano perché in fondo sei la loro buona coscienza. Perché tutti almeno una volta, con la macchina tirata a lucido, hanno atteso col groppo in gola sotto casa di una Lei. Tutti, anche quelli che non ti perdoneranno mai di aver ricordato a tutti che l’emozione di quei momenti non è sminuita dal candore, e che prenderne coscienza forma il carattere più di mille okkupazioni e cineforum. Per questo continueranno a far finta che tu non abbia successo, ad ignorare che il tuo primo album irruppe sulla scena con un gergo e della sonorità che hanno cambiato la musica italiana degli anni ‘90. Ma non te la prendere, Max, sai come sono fatti. O la rivoluzione è la loro, oppure non va bene.

A noi invece piaci così. Un Peter Pan un po’ di destra, un Piccolo Principe che ci ricorda l’enormità dei sogni dell’adolescenza, e che divenire adulti non deve significare per forza dimenticarli. Che si può sostituire la moto al veliero e le highway ai mari del Sud, rimanendo pur sempre Corto Maltese o Moitessier. Che entusiasmarsi per una cavolata non vuol dire avere la testa vuota, ma il cuore grande.

Ci tenevo, caro Max, a dirti queste cose, ora che hai superato i vent’anni di carriera. Parleremmo di ventennio, se fossimo come loro. Ma per fortuna non abbiamo bisogno di tirarti per la giacca per sentirti vicino, non ci servono dibattiti per vivisezionare i tuoi testi o leggere tra le righe. Ci bastano le tue parole. Che sono là, sullo scaffale delle opere che sanno ancora farci arrossire di nostalgia.

Ferdinando Kustermann

Ferdinando Kustermann su Barbadillo.it

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