L’analisi. Paolo Mieli (La Stampa 1988): “Almirante unì destra moderata e antisistema”

almiranteUn articolo di analisi dell’almirantismo, con interviste a studiosi e politologi, firmato da Paolo Mieli, ai tempi (1988) firma de La Stampa. ***

Quando nel 1969, alla morte di Arturo Michelini, Giorgio Almirante fu eletto segretario del movimento sociale (partito del quale aveva avuto in mano le redini al momento della fondazione tra il dicembre 1946 e il 1950) la reazione unanime dell’opinione pubblica democratica fu di sdegno.

Almirante era il leader dell’ala dura, manesca, estremista del suo partito: era considerato un punto di riferimento nel msi per quel primi gruppi della destra extraparlamentare (Avanguardia nazionale, Ordine nuovo) che già negli Anni Sessanta, di rissa in pestaggio, avevano preso a navigare ai confini dell’illegalità; nell’aprile del 1968 s’era esposto di persona in una violentissima zuffa col movimento studentesco alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma. Appariva dunque come un sovversivo dell’area nera, una figura in forte contrasto con quella del suo predecessore, il ragioniere Michelini, che aveva dedicato quasi tutte le sue energie a cercare accordi coi monarchici, la destra liberale e la parte più conservatrice della democrazia cristiana. E, quasi volesse meglio sottolineare la svolta che intendeva imprimere al partito, nei primi Anni Settanta si prodigò a confermare la sua fama di duro: esortò i suoi allo scontro di piazza con gli extraparlamentari di sinistra, tollerò che trescassero con golpisti e servizi segreti, soffiò sul fuoco della rivolta di Reggio Calabria, sfidò in ogni occasione la memoria antifascista e la sensibilità democratica. Però poi fu capace di essere anche qualcosa di diverso.

Respinse le avances dei neonazisti tedeschi, nel 1973 denunciò i due militanti missini che avevano causato la morte dell’agente Marino, nel 1976 cacciò dal partito Sandro Saccucci dopo la sparatoria di Sezze. Cosi nella seconda metà degli Anni Settanta il giudizio su di lui è parzialmente cambiato: gli si è riconosciuto il merito di aver aperto quel canale attraverso cui frange antisistema della destra più radicale sono potute transitare per essere riguadagnate alla politica legale. Un’operazione nella quale Almirante s’è impegnato in modo abbastanza netto prendendo con decisione le distanze dalla seconda generazione degli extraparlamentari neofascisti (Ordine nero, Nar, Terza posizione), chiedendo la pena capitale oltre che per i terroristi rossi anche per quelli neri.

“Per compiere questa meritoria svolta, però — osserva il più importante studioso del fascismo, Renzo De Felice — ha dovuto congelare il suo partito. Ciò che gli ha impedito di cogliere quei fermenti, quella realtà culturale della “nuova destra” che s’è poi aggregata fuori dal msi o attorno ai suoi oppositori interni. Risultato: una minore capacità di attrarre i giovani, un elettorato in lenta ma costante diminuzione, il non mantenimento della promessa di dare un volto rinnovato al movimento sociale”.  Il che, sempre secondo De Felice, ha di fatto perpetuato quello che è stato fin dagli Anni Cinquanta il più grave problema del msi: “L’esser confinato in un ghetto da cui si può uscire solo quando fa comodo a qualcuno, salvo poi doverci rientrare allorché questa “funzione” viene a cessare”.

Tutti coloro che hanno studiato il neofascismo sono concordi nell’imputare ad Almirante l’errore di essersi lasciato sfuggire la Nuova Destra guidata da Marco Tarchi. Un movimento che Giorgio Galli (nella prefazione al libro di Monica Zucconali «A destra in Italia oggi») ha definito “uno dei fenomeni culturali più significativi in Italia nella prima metà degli Anni Ottanta”. Non che la Nuova Destra potesse rappresentare la panacea d’ogni problema dell’area politico-culturale su cui ha regnato Almirante: “Perennemente incerto tra la “conquista del ghetto” neofascista e la “conquista della società” — ha scritto Marco Revelli, studioso di questo fenomeno prodottosi tra la fine degli Anni Settanta e l’inizio degli Ottanta — incerto anche tra tendenze integralistiche e vocazioni egemoniche, il filone più dinamico del radicalismo di destra esita a scegliere tra la mediazione culturale con le altre componenti dell’eresia nera e la modernizzazione ideologica indispensabile a ottenere una più vasta audience esterna”.

Ma è valutazione pressoché unanime (ovviamente al di fuori del msi) che Almirante abbia commesso un grave errore a non trattenere questo piccolo patrimonio. Roberto Chiarini, che insegna all’università di Milano storia dei partiti politici e che si è occupato a lungo dell’estrema destra, ritiene però che l’elettorato del msi, composto oltreché da nostalgici «da scontenti, o comunque gente molto poco politicizzata, di basso profilo politico”, è troppo diverso da quel ceto medio intellettuale urbano “che avrebbe potuto farsi coinvolgere dal discorso ipersofisticato di un Tarchi”. Consegnando il partito a queste «novità», Almirante. sempre secondo Chiarini, gli avrebbe probabilmente arrecato danno. Anche il sociologo Franco Ferraresi ha dedicato ricerche importanti alla destra più radicale. A suo avviso però la straordinaria longevità politica di Almirante si deve proprio al fatto che è riuscito a conciliare, nella misura del possibile, le molte contraddizioni dell’area neofascista e in primo luogo quella tra i difensori dello status quo e i sedicenti rivoluzionari. Contraddizioni che si manifestarono fin dal dopoguerra: «Ricordiamoci le elezioni del 1948 — esemplifica Ferraresi —; lo stato maggiore del movimento sociale, guidato da Almirante, era composto da reduci della Repubblica di Salò, un’esperienza che com’è noto aveva riguardato l’Italia settentrionale. Eppure l’ottanta per cento di voti il msi li prese da Roma in giù. Segno evidente di una dicotomia, della presenza alla base del partito di due anime”.

Almirante dunque ha dato prova di grande capacità politica nel tenere insieme queste due anime. E quando nella prima metà degli Anni Settanta conobbe il maggior successo elettorale proprio mentre cercava di trasformare il msi in Destra nazionale, cioè in un partito conservatore moderno in cui ci fosse posto anche per Pino Rauti, sfiorò forse il capolavoro. Ma poi, com’è noto, l’ala moderata, la corrente Democrazia nazionale, attuò una secessione (motivata proprio con l’insofferenza ai rautiani) e il sogno almirantiano s’infranse. Poteva Almirante in quell’occasione, o negli anni successivi, seguire un’altra strada, buttar fuori dal partito l’ala eversiva e consegnarsi del tutto a quella moderata? “Non credo — risponde Ferraresi —. Ripeto: la sua forza consisteva quasi esclusivamente nel tenere unite queste due correnti. Se avesse optato decisamente per l’una o per l’altra avrebbe comunque commesso un errore. Forse esiziale. Tanto più che difficilmente il msi, anche se avesse trionfato l’ala moderata, sarebbe divenuto un partito che si poteva includere in una coalizione governativa di centro-destra. Non avrebbe avuto comunque nessuno sbocco”. “Sono d’accordo — aggiunge Chiarini —, il msi ha successo quando intercetta lo scontento a Napoli, o Catania come in Alto Adige. Se si trasformasse in un partito moderato di destra perderebbe d’identità e farebbe la fine che stanno facendo i socialdemocratici. Può non piacerci, ma è cosi”.

* da La Stampa del 24 maggio 1988

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