Focus. L’esclusione del Lavoro nella visione globalista e l’attualità dell’Operaio jungeriano

Fortunato Depero, "Tornio e telaio"
Fortunato Depero, “Tornio e telaio”

Gli amministratori economici e politici della Globalizzazione da qualche tempo hanno posto sul mercato inclusivo delle “soluzioni” alcuni dogmi fatti di pochi elementi, ripetuti in modo ossessivo. “Reddito di cittadinanza”, “Integrazione dei diritti”, “robotizzazione del lavoro”. 

La borghesia trionfante sembrerebbe orientata a non modificare il proprio secolare schema vincente: offrire utopie umanitariste in cambio della completa rinuncia all’esistenza.

Da questo punto di vista il migrante, come affermato più volte, ad esempio dal nostro presidente della Camera, diviene figura d’avanguardia per gli ingegneri sociali globalisti: improduttivo, partecipe di diritti recisi da legami culturali, etnici ed economici; capriccioso consumatore sradicato. Egli rappresenta al meglio l’attore perfetto della perversa ciclicità debito-ridistribuzione-consumo-debito, di questa società capace di generare denaro dal denaro (usura), affossando ogni ultimo barlume di civiltà, persino materiale laddove non la cultura, ormai da tempo morta, ma le strade, i ponti, i capannoni,  poundianamente, cominciano a crollare. 

Di lavoro e di lavoratore, nessuno parla più. Il silenzio è assoluto. Da quando la sinistra marxista e post, non tradendo, ma anzi dando compimento al proprio ruolo dialettico all’interno del gioco democratico, ha palesato l’inconsistenza del lavoratore come classe, Egli è sparito, ridicolizzato come elemento del passato. 

Il progressismo ha così preso un’altra strada: dall’ottimismo titanico novecentesco alla virtualità jobsiana, cioè all’inconsistenza, delle forme attuali. Ovunque si osservi, cresce la propaganda volta alla creazione del denaro svincolato dal lavoro; ogni start-up assume pedigree di eccellenza se utile a ridurre o distruggere manodopera, ricerca, filiera, artigianalità. Il futuro globale enunciato dalla Grande Madre Rete, assomiglia così ad un incubo incerto, dentro al quale tutti parteciperanno alla ridistribuzione di una ricchezza sempre più inconsistente, o standardizzata.

Dunque è soprattutto in questi anni che la spiegazione jungeriana dell’Operaio (1932) non come attore sociale, ma come Forma, ossia potenza incontrollata, assume una dimensione più pragmatica e meno intellettuale. Proprio negli anni in cui muore il sindacalismo di facciata, e i diritti si sciolgono nel mare dell’utilitarismo umanitario globale, l’intuizione prussiana del Lavoratore come Soldato, dell’Operaio quale Eroe che assoggetta la materia e la forza al proprio volere, perde quell’aurea di stanco conservatorismo rivoluzionario, quella dimensione solo intellettuale buona a giustificare un nostalgismo corporativo adatto a sorreggere belle conferenze, ma lascia intravedere quella realtà tutta prepolitica su cui agire.

Questo per un motivo semplice: la globalizzazione è infatti l’ideologia di un fatto prepolitico, ossia della tendenza borghese ad investire senza produrre, a creare profitto con la minima responsabilità possibile. Direzione economica che ha accomunato liberali e marxisti nella costruzione di un mondo utopico finalizzato al comune sentire di “liberazione dal lavoro”. 

Paradosso del terzo millennio, quindi, è l’appartenenza filosofica, politica e fattiva di una qualche forma di miglioramento umano, di scatto di civilizzazione, di opposizione al decadimento, e si diciamolo, di progresso. Un’appartenenza che sembrerebbe tutta interna alla visione del mondo che diede origine alle risposte volontariste dei fascismi, capaci per un lampo di storia contemporanea, di distogliere il Lavoratore dalle nebbie del divertimento, assegnandogli il ruolo di feroce, amorale, universale costruttore di civiltà europea. 

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Giacomo Petrella

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