Ritratti. Lelio Lagorio “Granduca di Toscana” e socialista tricolore

Lelio Lagorio, politico socialista
Lelio Lagorio, politico socialista

Quando, corrispondente alle prime armi da Firenze, mi recai nel maggio del 1980 nella redazione romana del “Settimanale” per concordare qualche collaborazione, Giano Accame, che dopo l’esperienza al “Borghese” e poi al “Fiorino”, era caposervizio per la rivista, mi fece un vademecum sui politici fiorentini con cui avrei potuto avere a che fare. Arrivato al nome di Lelio Lagorio, mi disse: “Lui trattalo bene, è socialista ma presidenzialista”. Accame, allontanatosi nel 1968 dal Msi, in cui sarebbe rientrato per la porta d’ingresso vent’anni dopo come direttore del “Secolo d’Italia”, militava allora nel movimento “Nuova Repubblica”, di cui aveva diretto il settimanale “Folla”, e mirava alla rifondazione dell’Italia come repubblica presidenziale.

Non ebbi modo di far tesoro dei consigli di Accame perché, più che di politica, mi occupai per il “Settimanale” di cultura, collaborando direttamente con Fausto Gianfranceschi. Ad ogni modo la mia esperienza in quel periodico ebbe vita breve. Questo settimanale di centrodestra fu costretto a chiudere nell’autunno del 1981 per i contraccolpi dello scandalo P2, dopo avere avuto come praticanti futuri ministri o vicepresidenti del Parlamento Europeo come Antonio Tajani. Ma quel lontano consiglio, e quell’assimilazione di Lagorio all’area del presidenzialismo, mi sono rimasti impressi e non posso fare a meno di ricordarli ora che l’ex presidente della Regione Toscana, l’ex ministro della Difesa, l’ex capogruppo del Psi al Parlamento Europeo è scomparso a Firenze all’età di 91 anni, il 6 gennaio scorso.

Più che un presidenzialista, in realtà, Lagorio fu un esponente di spicco di quel movimento culturale, o meglio ancora di quello stato d’animo, che sarebbe stato definito socialismo tricolore e al quale lo stesso Accame avrebbe dedicato un pamphlet tre anni dopo. Una stagione effimera della politica italiana, maturata negli anni del craxismo, che Lagorio interpretò occupando il ruolo chiave di ministro della Difesa dal 1980 al 1983, durante i governi Cossiga, Forlani, Spadolini e Fanfani. Contrariamente a quanto è stato detto, non era il primo socialista a occupare quel dicastero chiave. Prima di lui, dal 1966 al ’68, ministro della Difesa era stato Roberto Tremelloni, di estrazione però socialdemocratica, che aveva dovuto gestire il contrasto fra il generale Aloja, sostenuto dalla destra, e De Lorenzo, che invece era stato voluto dal centrosinistra. C’è da aggiungere, però, che Lagorio era un socialista atipico e che il Psi craxiano stava prendendo le distanze dal petulante e rancoroso rivendicazionismo sindacale di un Falco Accame, lontano cugino di Giano, comandante di Marina dimessosi dalle Forze Armate ed eletto parlamentare nelle liste socialiste. Di madre triestina, figlio di un ufficiale dell’Esercito di fede monarchica che durante il fascismo era stato podestà di Volterra e poi si era rifiutato di aderire alla Rsi, Lagorio non aveva prestato servizio di leva, a parte il periodo della premilitare come avanguardista in un reparto a cavallo, perché si era sottratto alla chiamata alle armi della Rsi e aveva aderito alla Resistenza. Ma aveva respirato in casa un’atmosfera patriottica e irredentista e la sua prima formazione era azionista, non socialista. Allievo e assistente di Piero Calamandrei, aveva aderito a Unità Popolare, il movimento che raggruppava gli azionisti fiorentini, e solo nel 1957 si era iscritto al Psi, percorrendovi un rapido cursus honorum che l’aveva portato a divenire, sia pure per pochi mesi, sindaco di Firenze dopo la fine della stagione di La Pira. Era il 1965 e, nel commemorare il cinquantenario del 24 maggio, aveva accenti patriottici ben lontani dal pacifismo dei socialisti alla Matteotti, ma semmai vicini alle posizioni dell’allora Presidente della Repubblica Saragat, interventista e decorato nella grande guerra.

Lagorio fu poi, dal 1970 al 1979, quando fu eletto alla Camera, il primo presidente della Regione Toscana: ruolo che gli valse, insieme al suo caratteristico aplomb, l’appellativo di “Granduca di Toscana”. Anche in quell’occasione non mancò di distinguersi per alcune affermazioni quanto meno controcorrente, vista anche l’epoca, come quando, sfidando le perplessità del suo ufficio stampa, definì in un comunicato le accademie militari “le vere scuole del dovere”. Influiva sui suoi sentimenti il retaggio familiare, con un padre e un nonno ufficiali di carriera e la madre che, rimasta vedova, era un’assidua, discreta e signorile presenza fra le boiseries dell’allora Circolo Ufficiali di Presidio di Firenze.

Quando venne nominato ministro della Difesa, Lagorio capì, in quanto socialista, di dover affrontare le diffidenze degli alti gradi, accentuatesi quando si presentò in via XX Settembre sulla scalcinata utilitaria del suo assistente personale. Vi riuscì subito confermando lo staff, evitando d’imporre troppi collaboratori di estrazione politica, documentandosi con serietà, ma soprattutto con un gesto a effetto, primo di  una lunga serie di atti di alto valore simbolico. Il 20 aprile 1980, appena nominato, presenziò alla cerimonia del giuramento delle reclute della “Folgore” allo stadio comunale di Livorno, appena in tempo per recarsi in Parlamento per il voto di fiducia al governo di cui faceva parte. Nel discorso pronunciò una frase che era tutta un programma: “Sono socialista e con Churchill sono qui ad esaltare i leoni di El Alamein”. Era la caduta del tabù che aveva impedito a lungo alla nostra classe politica di celebrare gli episodi di valore dei nostri connazionali nella seconda guerra mondiale: una scelta che l’avrebbe condotto in seguito al sacrario militare a El Alamein. Al tempo stesso promosse una lettura in chiave patriottica della Resistenza, che non voleva consegnare all’egemonia comunista, aprendo una strada che sarebbe stata ripresa, due decenni dopo, dal Presidente della Repubblica Ciampi.

Sul piano operativo Lagorio premette sia per un potenziamento dello strumento militare, sia per una rivalutazione economica e morale della figura di ufficiali e sottufficiali, mortificati non solo dai bassi stipendi, ma dalla modesta considerazione sociale, accentuata da tutta una letteratura e persino da una filmografia antimilitarista: basti pensare all’effetto devastante di una pellicola come Marcia trionfale. Al tempo stesso, parte per intima convinzione, parte forse su pressione del suo partito, spalancò la strada agli organismi di rappresentanza dei militari e alla riforma della magistratura militare, che purtroppo aprì le porte dei tribunali anche a un sospetto di collusione col terrorismo. Perorò l’ingresso delle donne nelle forze armate, poi bloccato proprio per l’opposizione di un femminismo ancora condizionato da sentimenti antimilitaristi, e cominciò a prendere in considerazione la professionalizzazione del servizio militare. Promosse il rinnovamento e il potenziamento degli armamenti e delle dotazioni, anche in considerazione di una congiuntura internazionale estremamente critica, con le minacce di Gheddafi, l’attentato al Papa, la crisi degli euromissili e l’Unione Sovietica che, approfittando della “sindrome vietnamita” e della debole presidenza Carter, stava sviluppando una minacciosa manovra avvolgente dall’Afghanistan al Corno d’Africa. Quando il terrorismo cominciò a prendere di mira depositi di armi e persino, come a Salerno, militari di leva di transito, ordinò che le sentinelle montassero col colpo in canna, invece che, com’era stato a lungo prassi, col caricatore del Garand o del Fal incellofanato per prevenire incidente. Affrontò con molto realismo il problema della difesa del fronte nord-orientale, intrecciando in maniera informale contatti con le nazioni neutrali confinanti, la Jugoslavia del dopo-Tito e l’Austria, ma prospettando anche la possibilità di utilizzare l’arma atomica nel caso le truppe del patto di Varsavia fossero dilagate nella pianura padana (memorabile dinanzi a quell’ipotesi la domanda preeoccupata del primo ministro Forlani: “Dove? Dove?”).

Uno dei suoi meriti maggiori fu aver prospettato per l’Italia un ruolo in parte autonomo da potenza regionale sul fronte Sud, che poi si sarebbe esplicitato nell’operazione Libano. Beirut certo non fu “la nostra Crimea”, come aveva immaginato nella sua fervida fantasia risorgimentalista Spadolini, ma contribuì al rafforzamento del prestigio internazionale della penisola, che pochi anni prima “Der Spiegel” aveva effigiato in una celebre vignetta come un revolver posato su un piatto di spaghetti. Senza indulgere a retoriche buoniste, Lagorio volle che al nostro contingente in Libano fosse consegnata la bandiera di combattimento: “Eravamo un esercito, non la Croce Rossa”. Cominciata sotto una cattiva stella, per l’obsolescenza dei mezzi, l’operazione si risolse in un successo, e la stessa stampa britannica, che aveva fatto ironie sulle piume dei nostri bersaglieri, dovette ammettere che “se la spedizione fosse stata fatta solo di italiani e con i criteri di ingaggio stabiliti dagli italiani il risultato finale sarebbe stato migliore.”

Quel socialista tricolore che, in un’Italia attraversata dalle grandi manifestazioni contro gli euromissili, rivendicava senza mezzi termini l’eredità di Garibaldi e Battisti, non poteva piacere a tutti. Se aveva superato agevolmente le prevenzioni degli alti comandi per la sua estrazione di sinistra, preoccupava un largo arco di politici, da certi ambienti democristiani alla petulante pattuglia radicale, con Pannella che non mancò di chiederne la testa a Craxi. Non fu questo però a provocarne, con ogni probabilità, la caduta, ma il manuale Cencelli. Con il segretario del partito divenuto presidente del Consiglio, i socialisti dovettero ridurre per compensazione la loro presenza nei ministeri e Lagorio fu trasferito dal ministero della Difesa a quello del Turismo e dello Spettacolo: dalle stellette alle stelline, commentò qualcuno. Prima, però, avrebbe dovuto vivere un’esperienza singolare: una visita alla base segreta della Gladio a Capo Marongiu, in Sardegna. Come avviene ai papi, che appena eletti si vedono consegnare una busta con il terzo segreto di Fatima, così i ministri della Difesa della prima Repubblica si vedevano consegnare dal Sismi una nota con la notizia dell’esistenza di Stay Behind e la preghiera di apporvi il “visto”. La nota però non veniva consegnata a tutti, ma, solo a quelli che godevano della fiducia degli alti comandi. Lagorio, evidentemente, quella fiducia se l’era guadagnata. Da ex partigiano, non si scandalizzò per quella struttura che avrebbe dovuto colpire alle spalle (behind) il nemico in caso di un’invasione e visitò la base, che trovò per altro in stato di semismobilitazione.

Quando, ormai lontano dal ministero, assistette all’esplosione del caso Gladio, Lagorio non nascose le sue perplessità per quella che definì, nel suo documentato e godibilissimo libro di memorie L’ora di Austerlitz (Polistampa, 2005) “una colossale mistificazione”, quasi un “tentativo di riscrivere la storia della Repubblica”. Una mistificazione organizzata nel 1990, proprio all’indomani della caduta del Muro, quasi per “distrarre il giudizio del Paese dagli errori evidenti e dai grandi ritardi di chi era rimasto schiacciato sotto quel Muro perché tributario, fino alla fine, dei miti fallaci del comunismo mondiale.”

Caduti, pochi anni dopo, anche la prima Repubblica e Craxi, Lagorio, ormai settantenne, si tenne fuori dai giochi: il Granduca di Toscana abbandonò la politica con rassegnazione, ma a testa alta come un altro granduca aveva lasciato Firenze il 27 aprile 1859. Il valore di un  uomo di Stato si misura dalla dignità con cui si sa ritirare, più che dall’abilità con cui arriva al governo. E Lagorio, che in una bella giornata della primavera del 1980 aveva visto sorridere il sole di Austerlitz, seppe sopravvivere onorevolmente anche alle brume della Waterloo socialista.

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Enrico Nistri

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