Esteri. Il programma di Trump e l’orizzonte autonomo che si libera per l’Europa

E' Trumpmania
E’ Trumpmania

È successo. Non ce lo aspettavamo, non potevamo crederci, ma è accaduto. Guardando i risultati dello spoglio delle schede nei primi Stati, già alle 2 di notte del 9 novembre, il risultato è apparso già segnato. Troppo esteso il divario tra i grandi elettori, troppi gli Stati vinti dal candidato del GOP. In mattinata abbiamo saputo che Donald Trump, beffando ogni sondaggio e previsione, era divenuto il nuovo Elected-President degli Usa. Se il voto assoluto premia il Partito Democratico, sebbene in virtù di uno scarto infinitesimale (un misero 0,5%), è però Trump a trionfare nella maggioranza degli Stati: la carta degli Usa è ormai un’enorme macchia rossa puntellata da tracce di blu, collocate, come sempre, sulle coste, tendenzialmente fedeli ai democratici, e nelle grandi città.

Parole di sgomento, se non di condanna e indignazione, sono piovuto da parte della stampa e dell’opinione pubblica, particolarmente da parte di quella italiana; dall’altra parte i populisti europei, oltre che l’immancabile Putin, esultano per quella che ritengono una vittoria anche propria. Ebbene, è qui che si sbaglia. In Europa abbiamo uno sgradevole complesso nei confronti degli USA. Si potrebbe definirlo come un’affezione da voyeurismo: se da una parte è sempre più diffuso un sentimento di insoddisfazione, quando non di ostilità, nei confronti del gigante americano, dall’altra è diffusa un’auto-assimilazione pedissequa a quello che è il modello americano. Tuttavia non è questo il luogo per approfondire la questione. Ciò che invece ci interessa è la superficialità dei giudizi, espressi tanto nel campo che potremmo individuare, anche se in maniera molto imprecisa, come progressista latu sensu, che a destra.

Politica estera

Quest’elezione presidenziale è stata eccessivamente stigmatizzata. Con Trump non avverrà l’Apocalisse né la terza guerra mondiale. Tuttavia, se ragionassimo in un’ottica prettamente europea, più che americana, le linee essenziale propugnate da Trump rappresentano un vero e proprio cataclisma per l’Europa:

  1. Poco auspicabile è la distensione nei confronti della Russia. Forse sembrerà strano, ma praticamente significa lasciare a Putin la Crimea e il predominio sull’Est Europa. Semplificando: come se gli Usa si fossero ritirati dall’Europa o dal Vietnam senza colpo ferire ai tempi della guerra fredda.
  2. Se la collaborazione annunciata con Putin in Medio Oriente può rappresentare un controbilanciamento positivo, d’altra parte occorrerà ricordare che la Russia non agisce in quelle terre per amore di libertà. La ricerca (oltre che – in questo caso – la difesa) di uno sbocco sul Mediterraneo sono una costante della politica estera russa fin dai tempi di Pietro il Grande.
  3. Non è chiaro il rapporto che Trump intende instaurare con Israele. Il rischio di un progressivo ritiro dell’appoggio statunitense da Israele e dunque dal Medioriente è una opzione verosimile.

È molto semplice gioire per l’abdicazione graduale degli Usa dall’egemonia in Europa; non si tratterebbe nemmeno di un’eventualità di per sé negativa – al contrario -, se però l’Europa si facesse portatrice di una politica estera e di una politica militare unitaria oltre che efficiente. Il messaggio che gli Stati Uniti ci lanciano è di pacifica comprensione: non si ha più la capacità né il desiderio di accettare ancora a lungo la condizione di gendarme del mondo. Non staremo a sindacare se questo possa rappresentare un bene o un male, sta di fatto che è così e che l’Europa non ha la capacità, nell’attuale condizione, di far fronte ad una tale situazione.

Il rischio sarà quello di trovarsi schiacciati, come stati nazionali, tra potenze emergenti quali Russia, Turchia e Cina – senza contare la minaccia del fondamentalismo di matrice islamica -. La soluzione, nell’epoca della globalizzazione, è indicata da Carl Schmitt nel suo Il nomos della Terra: i grandi spazi. Gli scenari, però, sono tutti da definire, e l’abbraccio Europa-Russia è ancora da decifrare.

L’unica nota positiva in campo delle foreign relations è che l’elezione di Trump vedrà, probabilmente, fallire le trattative del TTIP, ovvero ci permetterà di continuare a pranzare decentemente.

Politica interna e giudizio complessivo

Per quanto riguarda la politica interna si può affermare ancora poco: il programma appare di Trump troppo confuso. Certamente la tentazione protezionista e la chiusura sull’immigrazione saranno rilevanti. Appare forse positivo il fatto che l’ottavo seggio della Corte Suprema, rimasto vacante dopo il decesso dell’Associate Justice Antonin Scalia questa primavera, dovrebbe essere ora occupato da un conservatore. Sarebbe così equilibrata la presenza di giudici conservatori e progressisti all’interno della Corte Suprema, seppur in maniera relativa, dal momento che l’A.J. Anthony Kennedy vota, in materia di questioni etiche, non diversamente dai democrat pur essendo stato nominato da Reagan.

Appare ora inevitabile porsi la domanda: come ha potuto l’America eleggere Trump? Proviamo a rispondere.

Il voto statunitense ha premiato dunque la preferenza data ai bisogni concreti e materiali più che ad un riformismo avvertito come estraneo. Si tratta certamente di un voto di protesta al pari di quello conferito ai grillini, alla Lega Nord o al Front National. Dimostra invece quanto la classe dirigente attuale abbia fallito. Si parla infatti di popolo contro le élite: è questa un’allocuzione dal sapore populista che va molto di moda, a destra e sinistra. Dovremmo però chiederci: quali élite?

Nell’ultimo secolo, a partire dal nascere dei totalitarismi e delle moderne democrazie liberali, si è affermata l’idea che le élite guida dello Stato debbano educare il popolo più che semplicemente amministrare il paese. Educare significa, banalmente, pretendere di illustrare ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, inseguendo utopie o affermando alcuni diritti positivi – per utilizzare un’affermazione coniata da Isaiah Berlin – che il common sense non ritiene del tutto reali. Questa è stata la posizione dei regimi totalitari così come, da mezzo secolo, dei liberali-radicali. Si è invece perso il senso proprio di élite quale classe dirigente motivata da interessi di natura non-ideologica ed anti-utopistica, posta ad amministrare in maniera pragmatica il bene comune così come a rispondere rispetto quelle che sono le necessità reali e materiali del cittadino, ovvero le uniche cui lo Stato dovrebbe interessarsi.

Alexis de Tocqueville, grande osservatore francese degli USA del XIX secolo, ci avvertiva già allora che la democrazia sarebbe sfociata in una demagogia se non tutelata da élite pragmatiche. È esattamente ciò che è avvenuto: il popolo, alle élite educatrici, ha opposto la preferenza per il tycoon, con tutte le conseguenze che staremo a vedere.

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Niccolò Nobile

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