Il caso. The Young Pope di Sorrentino e il cattolicesimo senza Fede

aaayoungpopeThe Young Pope. La serie televisiva ideata da Paolo Sorrentino torna ancora a far parlare di sé. Un registra di sinistra, il quale non appartiene certo alla cultura di matrice cattolica e che si definisce agnostico sceglie di offrire al pubblico, italiano e non solo, la storia di un Papa. Un Papa giovane, appunto, titolo e sintesi dell’opera che forse a qualcuno ricorderà un altro titolo, questa volta in campo librario, che a suo tempo suscitò altrettanto scalpore: Il prete bello di Goffredo Parise. Sorrentino non è il primo a tentare di indagare i misteri, veri o presunti del Vaticano: tentò Nanni Moretti, anch’egli agnostico ed estraneo alla cultura cattolica, con Habemus Papam, tentò Dan Brown con quell’accozzaglia di scempiaggini che sono stati Il Codice da Vinci e Angeli e demoni.

È interessante come nel mondo laico e non certo animato da intenti di promozione della Fede cattolica, si sia tuttavia rianimato un certo interesse per la tematica religiosa che fa perno sulla Chiesa romana. Essa, ormai in gran parte estraniata dalla vita del laico medio, parzialmente, e solo parzialmente, compromessa da quelle forze che Papa Paolo VI definì il fumo di Satana nella Chiesa e Dietrich von Hildebrandt il cavallo di Troia nella Città di Dio, rappresenta agli occhi dell’agnostico o comunque dell’uomo medio estraneo alla Sua vita, un peculiare cocktail di suggestioni. Si tratta senza dubbio di quelle suggestioni che, tipicamente, si accompagnano all’estraneità: con una buona dose di ridicolo, possono ricordare le lettere di Plinio il Giovane al suo imperatore Traiano, sgomento dinnanzi allo scandalo dei riti paleocristiani in Bitinia. Questo perché la Chiesa, questa burocrazia di celibi, come ebbe a scrivere Carl Schmitt in Cattolicesimo Romano e Forma Politica, è scandalo. La stessa comunità dei cristiani è scandalo. Scandalo perché professa un Credo più distante di quanto si possa immaginare dai valori che regolano il connaturato impulso edonista del materialismo presente, e, dall’altra parte, è tuttavia umana, composta da uomini peccatori e perfettibili, è la più umana e umanista tra le istituzioni religiose. Agli occhi dell’agnostico, del profano, la Chiesa appare oggi come una strana creatura. Misteriosa, quasi esoterica, governata da regole di potere – perché potere è forse la parola che forse più di frequente le si associa nel tempo presente – assolute e sotterranee. È questo l’infelice lascito di secoli di controinformazione che trova la sua espressione più sublime non certo nei libretti ameni di Dan Brown, quanto ne La Leggenda del Grande Inquisitore di Dostoevskij.

Sorrentino, con The Young Pope, in parte si discosta ed in parte cade nel medesimo vizio. Tuttavia, forse inconsapevolmente, tocca una problematica – con quanta lucidità staremo a vedere – che è tra le più gravi di quelle che la Chiesa si trova ad affrontare nel tempo della secolarizzazione. Quella dei cristiani – dei cattolici – senza Fede.

Il Papa di Sorrentino non solo è giovane, ma è anche un reazionario. Ciò piacerà tanto ai modernisti quanto agli ultras della Tradizione. I primi vedranno nel regista l’ennesimo alfiere della loro personale crociata contro i vizi di una Chiesa – a loro parere – troppo conservatrice, una Chiesa che deve cambiare, come piace ripetere[1]. I secondi troveranno nel fittizio Pio XIII – un nome una garanzia –, interpretato da Jude Law, un simpatico personaggio, peraltro allo stesso tempo autoritario ed anticonformista – anche se vorrei ricordare che fumare tabacco per un sacerdote non è proibito né dal Magistero né da altri statuti canonici -, in stridente antitesi con Papa Francesco, dipinto come bonaccione e politically correct, se non come eretico, come a qualcuno piace ripetere. The Young Pope è descritto come un orfano che vive un rapporto tumultuoso con Dio e con la sua Fede, come un prelato nei fatti privo di Fede, ma pieno di valori. Valori tradizionalisti o presunti tali. Sorrentino centra pienamente il problema di fondo che riguarda entrambe le categorie di cristiano di cui sopra, modernisti ed ultras: pieni di valori, ma non di Fede. Colpiti e affondati.

Non è luogo per intraprendere una lunga disquisizione sulla genesi di queste due correnti che, all’apparenza, sembrerebbero le uniche due anime della Chiesa. Basti solo affermare che, banalmente, potrebbero essere definite i due lati della medaglia, le due facce di Giano. Questo perché frutto di uno stesso albero: la quercia indomita della secolarizzazione. Secolarizzazione che basa la sua forza sulla polarizzazione dei concetti e delle parti: Carl Schmitt nell’opera sopracitata e Romano Guardini ne L’opposizione polare, si sono espressi sulla questione con grande acume[2]. La polarizzazione rifiuta la teologica complexio oppositorum del cardinale Cusano, tanto cara alla Chiesa, per trasferire ogni auctoritas in un soggettivismo ambiguo che è senz’altro pericoloso. Così i modernisti riportano al proprio sentire, a quelle che sono le esigenze da loro vissute – talvolta non a torto – le problematiche della Chiesa, il cui Magistero aggirano o neutralizzano nel caso in cui non lo rifiutino: docet, già nel XIX secolo, il caso di Lammenais. I fondamentalisti della Tradizione si appellano al Magistero stesso, è vero, non mettono in discussione i dogmi o la centralità della Chiesa – per utilizzare le parole di Papa Benedetto XVI in merito ai lefebvriani: il loro è stato uno scisma della fedeltà -, eppure si arrogano un diritto di giudizio e di scelta che spesso travalica ogni limite, mentre il rito, la liturgia vetus ordo, mantenuta nella pienezza della sua mistica beltà, finisce per svuotarsi di significato. Tutto ciò, tanto tra i modernisti che tra i reazionari, si accompagna ad una involuta svalutazione dell’elemento religioso a favore di quello politico: nazional-cattolici e cattolici-marxisti non sono poi troppo distanti nel loro disprezzo per Corpus Ecclesiae Mysticum. La loro è un’adesione a tutto tondo ai meccanismi della secolarizzazione: rifiuto di un’auctoritas che non sia la propria, privilegio della contingenza nei confronti dell’eterno, secolarizzazione di concetti teologici, semplificazione, accento sui valori piuttosto che sulla Fede – dimenticando che il termine valore, odierno sostituto di principio, mal si addice, anche semanticamente, alla sfera religiosa[3]. Robert Spaemann, José Luis L. Aranguren, lo stesso Benedetto XVI hanno scritto con grande acume in merito a tale tematica. Il cristiano senza Fede, e dunque senza Speranza, il cui sentire – non la cui coscienza – ha reso sé stesso arbitro assoluto di decisione. È la stessa svalutazione della Fede a condurre al soggettivismo: in fondo si tratta dell’errore di Lutero[4] che si ripete nei secoli. Sarebbe interessante ricostruire per intero la genesi di questo principio di dissoluzione della Fede, dissoluzione che talvolta si preannuncia anche da parte di autori apparentemente insospettabili[5].

Si è voluto associare il Pio XIII di Sorrentino, al secolo cardinal Belardo, un italoamericano, ad una forma mentis non dissimile a quella di certa New Right statunitense. Non si tratta di un’intuizione errata, al contrario, se non per il fatto che i neocon non leggono affatto Evola ma bensì Leo Strauss, il quale è di tutt’altra pasta e levatura. Eppure non ci si sbaglia: è loro propria una visione puramente strumentale della religione, fonte di valori socialmente utili ma non certo frutto della Fede. Una forma secolarizzata di religione, dunque.

Un Papa grande inquisitore

Si diceva dunque Il Grande Inquisitore. È un moderno Grande Inquisitore di Dostoevskij, seppur volgarizzato, che Sorrentino intende presentarci. Uno spunto per una riflessione feconda sulla Chiesa Cattolica, in merito a ciò che essa è e in merito a ciò che appare, senza dimenticare che il popolo di Dio non accetta la polarizzazione prevista dalla società secolarizzata. Presto scopriremo se l’attesa sarà valsa la pena.

[1] Si ricordino invece le parole, dal tono ben più lieve e consapevole, che ebbe a scrivere nell’opera Cammino uno dei grandi santi del secolo scorso, San Josémaria Escrivà de Balaguer: L’uragano della persecuzione è buono. -Che cosa si perde?… Non si perde ciò che è già perduto. – Se non si sradica l’albero – e non c’è vento né bufera che possa sradicare l’albero della Chiesa – cadono solo i rami secchi… E quelli è bene che cadano.

[2] La polarizzazione non riguarda solo l’ambito religioso, cattolico e non, ma anche quello politico: può rappresentare un’interessante chiave di lettura – anche se forse pressoché inedita – dell’opera di Carl Schmitt; il filosofo scettico inglese, Michael Oakeshott, privilegiato dalla sua britannica torre d’osservazione, ha tracciato un interessante compendio della secolarizzazione dei principi di Fede in formule politiche in La politica della fede e la politica dello scetticismo: si tratta di una prospettiva sorprendente e in decisa controtendenza con la media della cultura conservatrice cui Oakeshott appartiene.

[3] Anche in questo caso non è priva di interesse l’interpretazione che Schmitt fornisce del termine valore ne La tirannia dei valori.

[4] Il pensatore spagnolo José Luis López Aranguren, nel purtroppo dimenticato Cattolicesimo e Protestantesimo come forme di vita offre un suggestivo ritratto dell’anima protestante, distinta tra Lutero e Calvino, offrendo chiavi di lettura purtroppo sottovalutate ma assolutamente attuali e pregnanti di significato. Interessante anche la riflessione in merito a Kierkegaard quale massima moderna espressione dell’anima luterana.

[5] Robert Spaemann, uno dei maggiori teologi cattolici contemporanei, ne La nascita della sociologia dallo spirito della Restaurazione, si dedica ad un’analisi profonda del pensiero di Louis de Bonald e di quello tradizionalista e controrivoluzionario nel suo insieme fino a Maurras e all’Action française, ritrovando una stretta parentela con la filosofia della storia hegeliana, che Joachim Ritter, maestro dello stesso Spaemann, riconobbe come figlia della Rivoluzione Francese. Un tale accenno qui proposto potrà sembrare quasi azzardato, tuttavia si tratta un tema che occorrerà affrontare, così come il grande parallelo, ipotizzato da Carl Schmitt, tra Kierkegaard e Juan Donoso Cortés. V’è una vasta gamma di studiosi (Schmitt, Ritter, Eric Voegelin, Ratzinger, Spaemann, Aranguren, Guardini, Henri de Lubac, Oakeshott, Del Noce, oltre a Leo Strauss e Isaiah Berlin) le cui opere sono legate da un sottile filo d’Arianna che consiste nella critica al complesso processo di secolarizzazione, in ambito religioso così come in quello politico, che anima la società Occidentale. Uno studio ed un’analisi comparata di testi forse consentirebbe di venire a capo del problema o, quanto meno, di costruirne una profonda visione d’insieme.

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Niccolò Nobile

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