L’intervista. Enrico de Agostini: “Perché schierarsi è importante, sempre”

L'ambasciatore Enrico de Agostini
L’ambasciatore Enrico de Agostini

Lungo la seconda metà del ‘900, Jean-François Revel, Denis Mack Smith, Peter Nichols e tanti altri stranieri hanno scritto libri sull’Italia, constatando gli uni che l’Italia non è il seguito della Francia; constatando gli altri che gli Italiani non sono dei maltesi continentali. Ciò significa che erano partiti da casa loro nutrendo questa illusione.

Le differenze tra città e regioni italiane affascinano francesi e britannici come turisti, li preoccupano come osservatori, perché gli italiani non sono omogenei, dunque non sono prevedibili. Un italiano che legge i loro libri si chiede, invece, perché uno straniero venga in Italia e s’aspetti di vedere solo un altro modo di essere eredi o di protestanti o di giacobini, quando l’Italia non ha avuto né Riforma, né Rivoluzione. Ha avuto, sì, varie occupazioni militari, ma esse sono rifluite senza alterare usi e costumi. Certo, ci sono stati italiani che hanno aspirato e aspirano a diventare altri da sé. Questa ambizione è rimasta tale e fa tuttora dire a certi commentatori che noi non siamo “un Paese normale”.

Il via-vai di eserciti lungo la penisola non si è fermato per secoli, Circa duecentoventi anni fa furono i francesi a scendere dai loro confini e a presidiare l’Italia per un quarto di secolo. Enrico de Agostini è un diplomatico – ambasciatore ad Harare, Zimbabwe, ex Rhodesia del Sud – quindi conosce tutto questo. Ma, come diplomatico, può parlare solo a nome della Repubblica Italiana. Come romanziere, può invece scrivere a nome della Patria italiana e lo fa in Un prosciutto e dieci ducati (ed. IoScrittore, pagg. 194, euro 15, e-book euro 3,99, pagina facebook@dieciducati), dove evoca una vicenda tra fine ‘700 e inizio ‘800, avvenuta a Circello, allora provincia di Capitanata, oggi di Benevento…

Circello

Ambasciatore De Agostini, nel suo romanzo ci sono gli anni dal 1792 al 1815: ovvero l’intrusione straniera, la sommossa contadina e la lontananza dello Stato. Eppure si ha la sensazione, leggendo, che lei si riferisca allo ieri dei suoi avi, ma alluda all’oggi…

“La natura umana cambia poco nel corso della Storia. Cambiano le circostanze, i luoghi in cui essa si manifesta, ma la storia della persecuzione di don Giovanni, credo, serve a mettere in prospettiva tante cose”.

Mi fa un esempio? 

“Lei parla di ‘lontananza dello Stato’, ieri come oggi. Certo, ‘lo Stato’ è spesso tacciato di esser lontano dai cittadini, ma ci rendiamo conto quanto lo fosse allora, quando non c’era nemmeno una forza di polizia regolare, quando il regolamento privato dei conti era normalità, non eccezione? Qualcosa, da allora, è cambiato in meglio, senza dubbio”.

Quasi ogni epoca è “di transizione”, ma quella che lei racconta certo lo è stata. Si può attraversarne una senza schierarsi? Chi resta neutrale spera di non aver nemici, ma sa di non aver alleati…

Credo che schierarsi sia importante, sempre. Don Giovanni – protagonista del romanzo – è un esempio di una persona che non si schiera con una fazione politica, ma per un ideale di giustizia e tranquillità. È il mio esempio. Se si capisse, finalmente, che c’è bisogno di più impegno civile e di meno battibecco politico, si farebbero enormi passi avanti. In questo senso lei ha perfettamente ragione, nel romanzo parlo anche del mondo di oggi”.

Il manoscritto antico, di famiglia, da cui si muove la storia dell’ambasciatore de Agostini

Cardine della diplomazia, specie italiana, è mai restare isolati. Il protagonista della sua storia, don Giovanni, non sconta l’isolamento della gente perbene, che non appartiene a banda, cosca, o loggia?

“Già, la gente perbene. Una volta si chiamavano Galantuomini, parola ormai desueta. Sono scomparsi, in un certo senso, ma non vuol dire che si debba darla vinta ai Lazzari, o ai Giacobini, ai faziosi a oltranza, dell’una o dell’altra sponda. Ecco perché schierarsi è giusto, contro il malcostume; e non credo che così si resti isolati”.

La Napoli che resta sullo sfondo è quella che rimpiazza i re Borboni coi giacobini autoctoni, convinti di portare la civiltà a tutti gli altri. Gli utopisti di allora hanno tuttora in città degli omologhi? O le generazioni di borghesi progressisti che abbiamo conosciuto negli ultimi settant’anni (La Capria, Campagna, Ghirelli, Rosi…) sono un ricordo sbiadito?

“Le confesso una mia colpa: non conosco Napoli abbastanza per dirglielo. Ci ero sempre passato sulla via di Capri o Amalfi, ma, finalmente, nel 2012, quando stavo cominciando a scrivere Un prosciutto e dieci ducati, l’ho visitata per bene e l’ho trovata straordinaria, profonda. Conosco però, tanti napoletani, e questa profondità spesso si percepisce in loro”.

Il suo protagonista ha varie disavventure, ma non è un baciapile, né un reazionario. Caso mai è un realista. Anche questa figura trova incarnazione nella realtà odierna?

“Realisti ce ne sono ancora: quelli che si rendono conto che il realismo è l’unica via possibile (anche se a volte sembra impossibile),, anche se spesso viene usata come schermo per attività poco nobili. Nel romanzo, il personaggio del magistrato Luigi Petroli, ad esempio, si definirebbe oggi realista, ma è solo un carrierista ante litteram”. 

Il suo è un romanzo corale, con l’unica eccezione del protagonista, don Giovanni, che si staglia sugli altri personaggi. I comprimari, credo volutamente, non sono molto approfonditi nella loro psicologia. Non conosciamo, ad esempio, le motivazioni di don Gaetano, di Ciccio Saccone, del brigante Pozella. È stata una scelta precisa?

“Il romanzo deriva davvero da un manoscritto di metà Ottocento. Ho cercato, nei limiti del possibile, di rispettarlo, di aggiungere il minimo indispensabile, perché il suo valore, secondo me, è principalmente storico. Se avessi fatto troppi voli pindarici, mi sarei discostato dal mio scopo, che era quello di mostrare, in maniera godibile, come si vivesse nei paesi dell’Appennino sannita al tempo di Napoleone”.

 A chi dedica questo lavoro?

“A tutti i sanniti, di provenienza e di cuore, a quelli che si schierano per le cose in cui credono”.

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Maurizio Cabona

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