Storia/1. Mussolini e l’emancipazione femminile durante il fascismo

Donne fasciste
Donne fasciste

Pubblichiamo il prestigioso intervento dell’ambasciatore Gianni Marocco sul rapporto Mussolini e le donne

Le donne l’avevano in pugno. dall’adorata madre, la maestra Rosa Maltoni, ad Angelica Balabanoff, Margherita Sarfatti, “ispiratrice del culto della romanità”, alla figlia Edda – energica, autonoma, insofferente di gerarchie e convenzioni – da Claretta Petacci, tutt’altro che una sprovveduta, senza dimenticare la moglie Rachele, discreta e modesta, ma non rassegnata, né remissiva, né silenziosa, come si vedrà soprattutto alla fine del conflitto. Eppure il Duce degli Italiani continuava, come disse a Emil Ludwig, a Victoria Ocampo e ad altri, a riaffermare testardamente una fede “maschilista”.
Nel solco del pensiero tradizionale cattolico, in un Paese prevalentemente rurale, Mussolini conosceva il potere dei parroci. Così disse a Ludwig, nei Colloqui con Mussolini (1932):

“La donna deve obbedire. La donna è analitica, non sintetica. Ha forse mai fatto dell’architettura in questi secoli? Le dica di costruirmi una capanna, non dico un tempio! Non può farlo! Essa è estranea all’architettura, che è la sintesi di tutte le arti, e questo è un simbolo del suo destino. La mia opinione della sua parte nello Stato è in opposizione ad ogni femminismo. Naturalmente la donna non deve essere una schiava, ma se le concedessi il diritto elettorale mi si deriderebbe. Nel nostro Stato essa non deve contare. In Inghilterra le donne superano di 3.000.000 gli uomini, da noi le cifre sono uguali. Sa dove andranno a finire gli anglosassoni? Nel matriarcato!”.

Non proclamò la Rerum Novarum (1891), base del cristianesimo sociale della nuova Chiesa, succeduta a quella dell’alleanza trono-altare di Pio IX: “Certi lavori non si confanno alle donne, fatte da natura per i lavori domestici, i quali grandemente proteggono l’onestà del debole sesso”? Nel suo romanzo Pane nero, Miriam Mafai evidenzierà come la politica fascista e l’ideologia cattolica “si intrecciano e si sostengono a vicenda, imponendo alla donna un destino tutto biologico” e la sua subalternità nella famiglia e nella società.
Usando spesso un lessico catto-napoleonico, nel quale avrebbe voluto credere, il duce sapeva che musica piaceva ai compatrioti, che magari in casa subiscono in rassegnato silenzio o addirittura le buscano dalla consorte, ma che pubblicamente la menano e cornificano sempre! Un cliché già allora alquanto vetusto. Come se Ondina Valla non avesse vinto una medaglia d’Oro alle Olimpiadi di Berlino, nel 1936… Come se, una volta uscite di casa, le Giovani Italiane avessero accettato tornarvi docilmente? Come se Edda non si fosse messa al volante, avendo accanto Galeazzo, dopo il pranzo di nozze, nel ’30… Come se la contessa Piera Gatteschi Fondelli non avesse fondato il Corpo delle ausiliarie durante la Rsi, la prima volta che le donne legalmente vennero addestrate all’uso delle armi. Suscitano tenerezza, soprattutto conoscendo l’atroce destino riservato a molte di loro dopo il 25 aprile 1945, quelle adolescenti soldatine della Repubblica, miserucce nella disadorna divisa, il moschetto in presentat’arm, gli occhi bassi.
Addebitiamo pure a Mussolini colpe e difetti, ma riconosciamogli di essere stato, in sostanza, un buon padre di famiglia, di non aver mai trascorso una sera o una notte fuori casa, di non aver mai causato scandali. Come per Hegel, per lui “La famiglia è il primo momento dell’eticità, cioè della condivisione oggettiva di valori morali”. Mussolini alle sue donne raccontava notoriamente tutto, si faceva influenzare, consigliare, coccolare, talora compatire per la sua condizione di maschio attempato. Era il solito maschio italiano, quello che le donne italiane educavano quale antico, romano paterfamilias, conquistatore, forte, virilissimo, che dalle donne (mamma esclusa) sa farsi obbedire e rispettare sempre o fu qualcosa di assai diverso? Mistero. O è tutto chiaro?
Quasi tutto chiaro e basta a comprovarlo il Diario di Claretta. Mussolini è geloso, possessivo: le telefona in continuazione (dalla casa, di nascosto dalla moglie, è conciso, sibillino), talora è nervoso e sgarbato (come tutti gli uomini di questo mondo, che donne petulanti fanno a volte esasperare), frettoloso per i troppi impegni, ma poi si fa perdonare, diventa carezzevole e dolce, affettuoso e sollecito, imbraccia il violino e suona, come un gattone discolo che l’ha combinata grossa, ma che poi fa le fusa per farsi perdonare.
Era l’Italia di quel tempo il Paese delle grandi ambizioni, ma che si accontentava con molto meno. Con “Le Grandi Firme”, la rivista italiana edita tra il 1924 e il 1939, inventata dal duo Zavattini-Boccasile, con le prosperose ragazze incarnazione del sogno erotico di quell’epoca di transizione. Le donne durante il fascismo dovevano ufficialmente accontentarsi di vivere secondo lo slogan di Benito Mussolini: “obbedire, badare alla casa, mettere al mondo figli e portare le corna” e poi stare nell’ombra, perché il mondo in cui si trovavano era un mondo di soli uomini. Ma questa era pura teoria, cazzeggio da Circolo Ufficiali o da osteria. Alcune di loro, poche, secondo Marco Innocenti (Le signore del fascismo, Mursia, Milano 2001), andando controcorrente, erano riuscite a balzare in primo piano: Rachele Mussolini la massaia, Edda Ciano la ribelle, Claretta Petacci la romantica, Margherita Sarfatti l’intellettuale, Maria José la frondista, Alida Valli la fidanzata d’Italia, Doris Duranti l’orchidea nera, Luisa Ferida bella da morire, Wanda Osiris la leggenda, Liala la penna alata, Ondina Valla il sole in un sorriso… La
Wandissima continuò a scendere le sue celebri scale anche negli anni Cinquanta, avvolta in piume di struzzo e nuvole di Arpège…
In realtà le donne, e non certo poche, gíà contavano molto di più nella società italiana. L’Inno delle giovani Italiane poteva intonare:

“Siam le giovani italiane / Stuol di rondini legger / Che dell’aquile romane / Camminiamo sul sentier / Or l’Italia è tutta un volo / A la nuova primavera / Batti l’ala, ardita schiera / Della Patria il sol brillò / Il suo raggio a noi si stende / In un fascio tricolor / E nel cielo si distende / La canzone del valor / Le sacre vestali / D’Italia siam noi / Che guardan la fiamma / Dei martiri tuoi / Eterna sua luce / Nei cuori serbiamo / L’Italia del Duce / Per te lo giuriam / Italia del Duce / Per te lo giuriam! / Siam le balde sentinelle delle italiche virtù / Siam le vigili sorelle della nostra gioventù / E’ la casa il sacro altare / Dell’amor che in noi divampa / Ivi accesa abbiam la vampa / Che la patria ci affidò!”.

Ma erano pur sempre parole… Buone per gli slanci emotivi dei “sabati fascisti”, che per la prima volta consentirono a milioni di ragazzine di mettere il naso fuor di casa, piacesse o non piacesse ai padri, proletari o borghesi. L’entusiasmo vitale di quelle ragazzine, in gonna nera e camicetta bianca, apparentemente spogliate della classe sociale di appartenenza, che in parte si riverserà nelle scelte delle ausiliarie della Rsi, riesce arduo essere oggi compreso nella sua dirompente novità.
Da un lato i fascisti condannavano tutte le pratiche sociali connesse con l’emancipazione femminile, dal voto al lavoro extradomestico, al controllo delle nascite, cercando di estirpare quegli atteggiamenti volti all’affermazione di richieste di autonomia ed eguaglianza da parte delle donne. Dall’altro lato, nel tentativo di accrescere la forza economica della Nazione e di mobilitare ogni risorsa disponibile – inclusa la capacità riproduttiva delle donne –, i fascisti finivano, inevitabilmente, per promuovere quegli stessi cambiamenti che cercavano di evitare. Essi favorirono, cioè, la sua partecipazione per ottenerne il consenso. Il regime fascista capì che la collaborazione delle donne poteva essere non solo utile, ma necessaria, e procedette alla creazione di una “donna fascista per l’Italia fascista”.
La mobilitazione di massa, la modernizzazione dei servizi sociali ed infine il crescente militarismo degli anni Trenta ebbero l’effetto imprevisto ed indesiderato di intaccare la concezione tradizionale della donna e della famiglia. In altre parole, mentre le istituzioni fasciste restauravano a parole nozioni antiquate di maternità e paternità, femminilità e virilità, esse richiedevano, al contempo, nuove forme di coinvolgimento sociale. Così la nazionalizzazione delle donne italiane proseguì con decisione. Il riconoscimento dei diritti delle donne, in quanto cittadine, andò di pari passo con la negazione dell’emancipazione femminile, con riforme volte alla protezione sociale delle madri e dei bambini. Nel dicembre del 1925 il fascismo mise mano alla prima riforma sulla questione femminile con la creazione dell’Opera Nazionale per la Maternità ed Infanzia, per la tutela della madre e del bambino. Nel 1927 partì la campagna per l’aumento delle nascite, ma un serio sforzo per la creazione di organizzazioni di massa femminili si attuò all’inizio degli anni Trenta.
Si diede vita a politiche maternaliste ad ampio raggio: criminalizzazione dell’aborto, peraltro comune a tutto l’Occidente, assegni familiari, assicurazione di maternità, prestiti per matrimoni e nascite, titoli di preferenza nella carriera per padri di famiglie numerose, istituzioni per l’assistenza sanitaria e sociale alla famiglia ed all’infanzia. Esempio tipico fu l’istituzione, nel 1933, della “Giornata della Madre e dell’Infanzia”, stabilita per il 24 dicembre, la vigilia di Natale, una scelta che sfruttava il culto cattolico della Vergine Maria. In questo modo il regime accostava la madre italiana alla Madre di Dio, alla castità della Vergine, alla gioiosa nascita di Gesù, al supremo sacrificio dell’unico figliolo. Un’occasione di riflessione sull’antico culto italico della Matuta Mater, la dea dell’alba, e sull’esempio di abnegazione della Madonna.
Non a caso, il vero oggetto della celebrazione non erano le madri qualsiasi, ma quelle prolifiche. Il momento più alto del cerimoniale del primo anno fu l’adunata nazionale a Roma, alla presenza del Duce, nel corso della quale le madri più prolifiche di ciascuna delle novanta Province italiane furono passate in rassegna come i migliori esemplari della razza. L’altoparlante non le chiamò per nome, ma per il numero di figli. Il pro-natalismo fascista categorizzò due tipi di genere femminile: la donna-crisi, cosmopolita, urbana, magra, isterica, decadente e sterile; la donna-madre, patriottica, rurale, florida, forte, tranquilla e prolifica.
(1- continua)

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Gianni Marocco

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