L’opinione. Brexit come doppia sconfitta per l’Europa e il Regno Unito

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Pubblichiamo un intervento articolato sulla Brexit di una nostra giovane firma, Niccolò Nobile, intellettuale sensibile ai temi del conservatorismo europeo: un contributo critico per un’Europa da rifondare (con o senza la Gran Bretagna)

Illusions have consequences. Parafrasando il titolo di un’opera di Richard Weaver risalente ai tempi della Guerra Fredda, si potrebbe così riassumere, ad una settimana dal voto, il risultato del referendum britannico riguardo la permanenza nell’Unione Europea.

Esso è stato duplicemente descritto come una grave sconfitta per l’Europa e un’inebriante vittoria per il movimento delle piccole patrie, tanto è vero che ha ricevuto il plauso dei movimenti populisti ed euroscettici di tutto il continente, dal Front National alla Lega Nord, i quali lo hanno esaltato come un esempio da imitare e vociano di referendum da proporre anche nei rispettivi paesi. Insomma parrebbe la palese dimostrazione che il voto popolare può sconfiggere l’Europa delle banche, dei burocrati, delle élites

Sono stati infatti questi i principali argomenti dei sostenitori della Brexit: combattere per un Regno Unito più indipendente e più forte dal punto di vista internazionale da poter autonomamente decidere dei propri destini; quindi, innanzitutto, un mercato libero dalle rigide prescrizioni dei tecnocrati di Bruxelles e una svolta radicale nel blocco dell’immigrazione. Ma quale è la realtà dei fatti? Cosa aspetta l’Europa e quali gloriosi destini attendono il Regno Unito? Occorrerebbe oggi avviare una riflessione moderata e razionale che, appunto, rigetti i sentimenti della contingenza.

Il Regno Unito e, prima ancora, il Regno d’Inghilterra, ha avuto una storia parzialmente separata rispetto al resto dell’Europa in virtù della sua posizione isolana, che la ha protetta ripetutamente dall’invasione francese e poi da quella nazista, forgiandone allo stesso tempo il carattere, che presenta evidenti specificità. Anche il suo rapporto con le istituzioni europee, fin dalla loro nascita, è stato senza dubbio peculiare. Sarà utile ricordare che l’adesione dell’UK alla Comunità Economica Europea risale al 1973, frutto di un lungo percorso avviato dal Partito Conservatore, già a partire dai governi MacMillan e Douglas-Home, al fine di contrastare, proprio in nome di regole più flessibili, l’ampliamento dello stato assistenziale e del controllo sul mercato da parte dei governi laburisti. Apparirà paradossale, ma il Regno Unito scelse la via europea per sfuggire allo statalismo e alla burocrazia centralizzata, al contrario di quanto avviene oggi. La rivoluzione conservatrice apportata da Margareth Thatcher all’interno del sistema sociale ed economico britannico ha certamente mutato diverse condizioni, tanto che il Regno Unito ha rappresentato, fin dal trattato di Maastricht, un vero e proprio freno all’integrazione economica europea, in quanto i propri parametri di flessibilità, sociale e di mercato, superano di gran lunga quelli europei. La Gran Bretagna non è la Grecia, non fa parte dell’eurozona né subisce eccezionali limitazioni da parte delle istituzioni europee. Al contrario, ha avuto la possibilità di mantenere un profilo politico alto a livello internazionale proprio grazie alla sua presenza nelle istituzioni europee, rischiando altrimenti di divenire poco più che un satellite statunitense.

Dunque cosa ha mai il Regno Unito da guadagnare con la Brexit? Al contrario di quanto ritengono coloro che vorrebbero un’Inghilterra più forte, il suo ruolo internazionale subirà un netto tracollo, così come la sua possibilità di influire nel mercato europeo. Metà delle esportazioni britanniche, che non sono molte, sono dirette nell’Unione Europea, il cui single market è vitale per la City e per attrarre investimenti stranieri diretti. Al Regno Unito, per mantenere un’economia florida, non resterà che accettare quelle stesse regole e quei movimenti umani che vorrebbe limitare, senza nemmeno poter influire minimamente sulla legislazione europea: lo hanno chiaramente esplicitato tanto il presidente francese Hollande che il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schauble. Nel migliore dei casi potrebbe essere così, seguendo il modello della Norvegia e della Svizzera, le quali non fanno parte dell’UE ma aderiscono alla sua zona di mercato, se non fosse che il più demagogico degli argomenti presentati dai Leavers è il blocco dell’immigrazione. Inoltre occorrerà rimpiazzare dozzine di patti stipulati a livello europeo, divenendo, come ricorda una delle maggiori testate liberali, The Economist, nient’altro che a smaller, weaker negotiating partner. Il peggio è che lasciare l’Unione Europea non significherà affatto un mercato più ampio e libero, ma, al contrario, uno più ridotto e controllato, in gran parte privo di attrattive per gli investimenti, anche provenienti da paesi esterni all’UE quali il Giappone e gli USA.

V’è poi l’obiezione che la Brexit possa diminuire il controllo dello Stato sull’economia, ma purtroppo anche qui si rischia di cadere in una triste illusione. Il 14 giugno il Cancelliere dello Scacchiere, George Osborne, ha ricordato che l’uscita dall’UE porterà necessariamente alla promulgazione di un bilancio d’emergenza per alzare le tasse e tagliare la spesa pubblica. Per colmo del ridicolo, a dispetto della retorica neoliberista, furono proprio i Brexiteers, come Farage, ad invocare l’aiuto dello Stato e tariffe protezioniste per salvare le acciaierie di Port Talbot, in Galles, che rischiavano di fallire, ad un tale livello che certo la protezionista Unione Europea mai avrebbe concesso. Come ricorda Jagjit Chadha, direttore del National Institute for Economic and Social Research, è raro che gli economisti si trovino d’accordo quando si tratta di previsioni, ma non è stato così per la Brexit. Un buon numero di studi, tanto della Tesoreria di Stato, quanto di think thank quali l’Institute of Fiscal Studies, l’Oxford Economics, il Centre for European Reform e il Centre for Economic Performance della London School of Economics, sotto tutti concordi con il Fondo Monetario Internazionale nel dichiarare che la vittoria del Leave significherà meno mercato, meno investimenti stranieri, meno produttività, più tasse. Non si tratta di un malvagio complotto degli eurotecnocrati, semplicemente della realtà del mercato.

Al di là della posizione internazionale del Regno Unito, posizione che appare non certo brillante, v’è poi la questione, ancora più rischiosa, riguardante la politica interna. La Brexit è stata descritta da più parti come una vittoria delle piccole patrie sul gigante europeo. Eppure pare che le piccole patrie, Scozia e Sei Contee, che i movimenti euroscettici, specialmente in Italia, tendono ad esaltare, si siano espresse a maggioranza per rimanere nell’Unione Europea. Il Remain ha vinto in tutti i collegi elettorali scozzesi raccogliendo il 62% dei voti contro il 38% del Leave; più complessa la situazione dell’Irlanda del Nord: il voto per lo status quo si è attestato al 55,78%, con picchi nei distretti a maggioranza cattolica, mentre quello per l’uscita dall’UE al 44,22%. Ciò sembrerebbe indicare che le piccole patrie, a dispetto di ogni centralismo, vedono nell’integrazione europea una garanzia per i propri diritti nei confronti di quella Little England che detiene il predominio politico. Quale sarà l’avvenire di queste due regioni della Gran Bretagna lo deciderà il futuro, ma certo il governo di Londra non dovrà aspettarsi nulla di buono, come già hanno annunciato il primo ministro scozzese Sturgeon e il vice primo ministro irlandese McGuinnes.

Infine: i partigiani, interni ed esterni, della Brexit l’hanno esaltata come una rivolta del popolo contro le élite politiche, sociali e culturali, tanto è vero che l’appoggio di un docente di Oxford o della LSE al Remain per molti ha significato una ragione in più per votare con Farage. Non manca il risentimento, anche da parte di molti tories, nei confronti di David Cameron, studente di Eton e di Oxford, e della sua cerchia, risentimento in gran parte capitanato da un uomo palesemente lontano anni luce dall’establishment quale Boris Johnson, ex studente di Eton e di Oxford non meno di Cameron ed Osborne. È, questo sentimento antielitario, un moto molto pericoloso che contraddistingue tutti i populismi europei, ma sul quale non si ritiene necessario soffermarsi in questa sede.

Tuttavia, la vittoria della Brexit, rappresenta un duro colpo rivolto a quelli che sono stati gli schemi della politica britannica negli ultimi vent’anni, sancendo tanto il fallimento di quel compassionate conservatism, moderno ed europeo, propugnato da Cameron, quanto del modello di New Labour ideato a suo tempo da Tony Blair. Anche in Gran Bretagna, come nel resto d’Europa, eccetto forse che in Germania, la selezione della classe politica lascia spazio a chi grida più forte, attuando una selezione in negativo. Ed ecco emergere dagli schieramenti tory e labour figure come Boris Johnson e Jeremy Corbyn, per tacere dell’inossidabile Farage, in cui favore resta la parlantina brillante. La sconfitta rappresentata dalla Brexit è tutta inglese, tanto dal punto di vista economico che politico. L’Unione Europea perde un partner difficile, ma pur sempre necessario, nella speranza che, a lungo termine, gli effetti negativi della vittoria degli euroscettici in Inghilterra scoraggino le pretese demagogiche dei movimenti populisti. Personalmente sono scettico sul successo dell’effetto domino che si dice potrebbe avere l’esito del referendum britannico. Certo, rappresenta un monito: l’Europa è da rifondare, ma abbandonarla non è la via migliore, né da un punto di vista ideale né da uno strettamente pratico.

Divided we stand, united we fall: sono queste le parole, perfetta espressione dell’individualismo britannico, che il romanziere Evelyn Waugh fa pronunciare, in Put Out More Flags, ad uno dei suoi personaggi, Cedric Lyne. È indubbio che l’eccentrico Waugh, nostalgico della sua Little England, avrebbe votato accanto a Johnson e a Farage nel corso del referendum del 23 giugno: non a caso l’assioma, capovolto rispetto al suo significato originario, riassume l’essenza dell’opposizione britannica all’Unione Europea. Eppure sarà proprio Cedric Lyne, forte del suo motto, a cadere combattendo, sì, da individualista, ma per il futuro dell’Europa.

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Niccolò Nobile

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