Cultura. Addio a Albertazzi artista geniale. Non rinnegò mai la gioventù nella Rsi

Giorgio Albertazzi
Giorgio Albertazzi

«Di cosa dovrei pentirmi? Non amo il pentimento, un sentimento cattolico che disprezzo. Perché “dalla parte sbagliata”? Perché era la parte perdente? C’è una cosa, una sola, che mi pesa. Aver sentito talora la mia scelta per la Repubblica sociale, che mai rinnegherò, come un freno per fare sino in fondo quel che avrei voluto, a fianco della sinistra. Voltare gabbana, mai. Le stesse cose che mi avevano spinto a Salò, l’anticlericalismo, l’idea sociale della Carta del lavoro e della partecipazione dei lavoratori agli utili delle aziende, l’istinto dell’anarchia e della libertà, nel dopoguerra mi spingevano a impegnarmi con la sinistra»: così Giorgio Albertazzi, artista geniale e italiano illustre ricorda la sua gioventù con la divisa neroverde della Repubblica Sociale italiana.

Albertazzi è morto oggi all’età di 92 anni. La sua carriera è stata folgorante, i suoi successi e la sua vocazione di libertario autentico è un manifesto di impegno civile e dedizione per l’arte e il teatro. Qui ricordiamo la sua coerenza e il suo stile nell’andare controcorrente, nell’Italia dei voltagabbana e dei conformisti pronti a rinnegare il proprio passato per ottenere una prebenda o un privilegio dai potenti che custodiscono l’egemonia di turno.

I rapporti con il Msi

“Stimavo Almirante, figlio di attori e a sua volta molto dotato, ma con i missini non ho mai avuto a che fare, anzi loro contestarono un mio spettacolo dedicato a Lorc”».

Sessantottino

“Posso dire di aver fatto il Sessantotto. Ero a Genova, per la prima mondiale del Fu Mattia Pascal, adattato al teatro da Tullio Kezich, regia di Luigi Squarzina. Era una stagione di lotte – la Finsider in crisi, la Pettinatura Biella chiusa – e io mi ci buttai. Andavo nelle fabbriche occupate a recitare poeti latinoamericani, che ogni due versi evocavano la rivoluzione. Partecipavo ai cortei con le bandiere rosse. Squarzina, che era comunista, mi consigliò di non esagerare. Quando la consigliera in quota Dc del teatro stabile fece una battaglia per cacciarmi, gli operai Finsider marciarono sul teatro al grido “giù le mani da Albertazzi”. Poi cominciarono le lotte dei radicali. Mi impegnai nelle campagne per il divorzio e l’aborto, giravo i paesi, tenevo discorsi. Fui anche eletto in Parlamento ma rinunciai al seggio. Per questo ho sofferto quando mi tolsero la cattedra di letteratura teatrale all’università di Torino, per il veto di Guido Quazza”.

Perché l’adesione alla Rsi: “La parte legale, l’Italia, era quella”

“Forse, se fosse stato vivo mio nonno Ferdinando, socialista, mi avrebbe convinto a non rispondere al bando della Rsi. Ma il nonno era morto di polmonite, nel ’34. Mio padre era un fascista tiepido. Zio Alfio invece era un fascista della prima ora; massacrato dai comunisti a Firenze nei 45 giorni di Badoglio. Ma non fu questo a spingermi verso Salò. Dirlo sarebbe comodo, ma insincero. La verità sulla scelta di un ragazzo della mia generazione non è stata ancora detta, e non può essere capita fuori da quella temperie. Non ha senso chiedere oggi: perché sei andato con i criminali? Per chi come me leggeva Salgari e l’Avventuroso , all’astuzia di Ulisse preferiva la forza di Achille, era cresciuto nel mito di Baracca e di D’Annunzio, dei trasvolatori dell’Atlantico e dei calciatori bicampioni del mondo, il fellone era Badoglio che scappava. Che ha senso ricordare oggi: la parte legale non era quella? Per chi come me aveva il mito non tanto del Duce ma di Ettore Muti ucciso dai badogliani, di Italo Balbo abbattuto nel cielo della Sirte, degli eroi della Folgore disfatti a Birel Gobi, la “parte legale”, l’Italia, era quella. E io ho combattuto per l’Italia”.

“Amavo Fiume e D’Annunzio”

“Non amavo Mussolini per la sua retorica. Come non amo Berlusconi per la sua pompa, pur se riconosco che è un grande attore. Amavo il D’Annunzio di Fiume e degli amori alla Capponcina, la villa vicino a cui abitavo. Da ragazzo ero innamorato di zia Livia, la sorella di mia madre. Zio Alfio era suo marito. Gli chiedevo: cos’è il fascismo? Rispondeva: il fascismo è l’Italia. Dopo il 25 luglio andarono a prenderlo in quattro, lui aveva una rivoltella in tasca ma non la usò, lo massacrarono di botte, agonizzò per giorni sputando a pezzi i polmoni. Io avevo 18 anni, tiravo di boxe, ero forte e veloce. Partigiani in giro non ce n’erano, e devo dire che non ne ho mai visti, se non nella primavera del ’45. Non voglio generalizzare, ma certo molti divennero partigiani in quanto renitenti”.

Lo sdegno per Piazzale Loreto

Intervistato dal Fatto quotidiano, Albertazzi commentò così la barbara fine di Mussolini: “Piazzale Loreto fu solo macelleria messicana. Niente altro. Fu uno schifo, per chi l’ha voluto e chi l’ha portato a termine quel disegno. Ma non poteva essere evitato, non nel senso politico del termine, ma perché l’uomo è quella cosa lì, il peggiore degli animali. E quello che accadde a piazzale Loreto mi ripugna, mi angoscia e mi fa rabbrividire ancora il ricordo. Peserà come una macchia indelebile. E tutti gli altri piazzali Loreto che abbiamo dimenticato e che ci sono ancora oggi, in mondo apparentemente lontani come la Siria, la Libia, l’Iraq”.

La fama di fascista
“La fama di fascista non me la sono mai scrollata di dosso. Andai a Salò come tanti ragazzi, convinto che lì si combattesse per l’Italia, ma con altro spirito, e soprattutto consapevole che in quel momento stavo dalla parte di chi già aveva perso. Come dissi in un’intervista all’Espresso nella sentenza del Tribunale militare che mi ha assolto in istruttoria dopo due anni di carcere preventivo, c’è scritto che ho messo in salvo 19 ebrei. Ma non l’ho mai raccontata questa cosa. Non mi andava. le mie responsabilità, seppur di ventenne, me le prendo tutte. Senza vittimismo o pentitismo. Ma ripeto che quello che avvenne a piazzale Loreto fu un teatro dell’orrore, inutile, anche per l’epilogo della rivoluzione civile”.

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Michele De Feudis

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