Libri. “Sportivamente d’Annunzio” e lo scudetto inventato a Fiume

La copertina di Sportivamente d'Annunzio
La copertina di Sportivamente d’Annunzio

Io ho quel che ho donato”. Altro che marketing, fu l’emblema d’ordinanza dell’irredentismo, la fede nel simbolo patrio impresso sul cuore: così la maglia della Juventus è in debito con Gabriele d’Annunzio. Come quelle di ogni squadra campione d’Italia, dal secondo dopo guerra in poi. Fino ad oggi, nessuna esclusa. Perché dalle camicie dei giovani legionari di Fiume (era il 1920), se sul petto ci si cuce l’ambito tricolore nella festa del podio pallonaro, lo si deve al personaggio che, per oltre mezzo secolo, ha dominato la scena politica e letteraria del Paese nel secolo scorso. Tolto fascio littorio e scudo Savoia dalle casacche dei primatisti, caduto Mussolini.

E’ il Vate che non t’aspetti, l’esteta superomista tra football e giornalismo sportivo, molto tempo prima della rosea, quotidiano (ancora) di Milano. “Io spero di venire nella sua sala e di mostrarmi espertissimo nel vivace e delicato gioco che iersera tanto mi piacque”. Il Museo del Genoa conserva copia della lettera olografa del 1902 scritta al titolare dell’hotel in cui soggiornava il medico inglese fondatore del vecchio grifone, capostipite riconosciuto non solo dai rossoblù, quando il calcio di frontiera (seminaristico e portuale) era gestito dalla federginnastica e il primitivo campionato finiva tra polverosi sterrati in una manciata di scontri diretti. Infondo, però, gli piaceva proprio il calcio, inezia squisitissima, al devoto nel culto dell’eroismo trasfigurato e della memoria collettiva: “Oscurerò la gloria del dottore Spensley”, predisse d’Annunzio il veggente, da fine appassionato dell’occulto quale era, puntando l’indice (chissà quanto per mero diletto!) proprio sull’untore della fede, il pioniere del football al di qua delle Alpi. Perché quell’imperdonabile velo oscurantista dall’aspro sapore d’oblio, a cui i cattedratici Papa-Panico avevano già pensato di rimediare citando – nella loro monumentale opera sulla storia sociale del nostro calcio – la primogenitura del pallone d’oltre Manica sdoganato a Roma nel 1887 (nell’episodio in cui il Comandante perse due denti, calciando la prima sfera di cuoio nella Capitale), viene ora tolto da ‘Sportivamente d’Annunzio’ (Edizioni Croce) per merito del giovane cronista abruzzese Giammarco Menga, autore di alcune ricerche mirate, confluite in un saggio snello (ma ben costruito pur nell’asciuttezza, a volte, forzatamente didascalica nello stile) che in rapida rassegna passa le essenziali tappe tra sport, letteratura e giornalismo dell’ex illustre inquilino de ‘Il Vittoriale degli Italiani’.

Un ambito trascurato nei decenni di studi – scrive Menga, in precedenza autore anche di un documentario dall’omonimo titolo del libro – a vantaggio dei soliti temi amorosi, sessuali, letterari e militari. In realtà il Vate è stato anche un vero sportsman, uno dei primi intellettuali ad intuire con largo anticipo il ruolo che lo sport avrebbe recitato nella società modernizzata del Novecento.” Come ricorda Giordano Bruno Guerri (presiede la fondazione del mausoleo sul Garda, qui è sua la prefazione), d’Annunzio può infatti venir considerato “il primo giornalista sportivo italiano della storia, avendo intuito prima degli altri il passaggio dello sport da attività d’élite a fenomeno di massa”. Spensley, con buona pace della Juve tricolore, riposi pur sereno: cogli la rosa, evita le spine.

Sportivamente d’Annunzio di Giammarco Menga (Edizioni Croce)

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Maurizio Martucci

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