Esteri. La politica di Metternich vista in una prospettiva europea

European union concept, digital illustration.

Le rovine del castello di Winneburg
Le rovine del castello di Winneburg

Al volgere di quest’anno, saranno trascorsi due secoli dal termine del Congresso di Vienna: un avvenimento che solo il granducato di Lussemburgo ha celebrato, con una moneta da cinque euro coniata per l’occasione che farà impazzire gli appassionati di numismatica, mentre la casa editrice Castelvecchi ha dato alle stampe un bel libro, anche se datato, di Harold Nicolson sull’argomento. Di fatti, a chi potrebbero mai interessare eventi di duecento anni orsono, apparentemente senza alcuna attinenza con la contingenza? Al limite si potrebbe concedere di ricordare la fine dell’epopea napoleonica e quindi l’infrangersi delle speranze rivoluzionarie e liberali in Europa, non certo l’avvenimento che si interpose tra le magnifiche sorti e progressive dell’umanità e il loro compimento, né, tanto meno, il suo principale fautore. Eppure, la presenza sinistra e un po’ démodée del principe Metternich permane nella storia, quasi un révenant, un fantasma sgradito al limite dei tempi.

Klemens von Metternich in un ritratto del 1813

Molto si è scritto su di lui. Il giudizio che fornisce la storiografia del XIX secolo sul suo operato non è certo positivo: egli non raccoglie le simpatie degli storici patriottici tedeschi come Treitschke e Ranke, né quelle dei loro omologhi italiani, sui quali pesa l’eredità del Risorgimento, né dei grandi liberali inglesi, Lord Acton in testa, benché fosse apprezzato da Bismarck e Disraeli. Egli stesso ha lasciato delle memorie, oggi ripubblicate in Germania ed in Italia, per la verità più documento storico che manifesto politico. Certo molto più sfiziose e, talvolta, toccanti sono le lettere scambiate con Dorothea von Lieven, la donna sposata che fu l’unico vero amore della sua vita: fino a cinquant’anni fa, in Germania, esse rappresentavano un classico della letteratura sentimentale.

Furono solo le grandi catastrofi del ‘900, il secolo che vide avverarsi le peggiori profezie stigmatizzate in quello precedente, che portarono ad una rivalutazione moderata dello statista asburgico. Fu il caso di uno storico Großdeutsch come Heinrich von Srbik e della storiografia anglosassone, mentre Coudenhove-Kalergi, uno dei padri dell’integrazione europea, nell’intento di prevenire il peggio, si riprometteva di rifondare le basi d’Europa asserendo: lo spirito di Mazzini ha trionfato su quello di Metternich. Oggi le biografie dello statista non mancano: da quella di Arthur Hermann a quelle di Franz Herre ed Alan Palmer fino alla più recente di Luigi Mascilli Migliorini, mentre l’accurato studio di Angelo Ara, Fra Nazione e Impero. Trieste, gli Asburgo e la Mitteleuropa, con equilibrio ed eleganza, ricostruisce per i lettori italiani la genesi e lo sviluppo dei fondamenti sui quali si basava il fragile equilibrio, mitteleuropeo ed italiano, voluto da Metternich. Eppure, nella coscienza del grande pubblico, egli resta una figura ambigua e fondamentalmente antipatica, a metà tra il principe delle tenebre e il principe dei salotti e dei giochi diplomatici, il fautore della censura e dello stato poliziesco, quasi un precursore dei totalitarismi novecenteschi, lo spettro della repressione e un relitto dell’età feudale. I nostalgici dell’ancien régime non variano di troppo il loro giudizio, sebbene letto in una prospettiva rovesciata. Potrebbero adattarsi a lui le parole che un importante filosofo della storia delle idee, Isaiah Berlin, dedicò a Joseph de Maistre, pensatore dalla modernità scandalosa, nella sua opera Freedom and Its Betrayal[1]: viene descritto o come il paladino coraggioso, ancorché condannato al fallimento, di una causa persa, o come uno sciocco o odioso superstite di una generazione più vecchia e più spietata (…) Ma in entrambi i campi, quello schierato con lui e quello schierato contro di lui, l’assunto è che il suo tempo è finito, che il suo mondo è irrilevante per tutto ciò che è contemporaneo. Qual è dunque la verità su Metternich? Eppure, quale potrebbe essere un giudizio sereno ed obiettivo, senza false nostalgie, rancori, sentimentalismi o apologie, sulla figura di questo protagonista della storia europea? Quali i suoi apporti, quali le sue pecche? Dovremmo gettare via tutto il suo operato nell’oblio della storia, o v’è qualcosa sulla quale possiamo fermarci a considerare? E’ ciò che ci proponiamo qui di approfondire.

Nel 1828, in piena era metternichiana, il drammaturgo austriaco Franz Grillparzer rappresentava a Vienna una delle sue opere più riuscite: Ein treuer Diener seines Herrn (Il fedele servitore del suo signore). All’epoca Grillparzer non era certo noto per essere un simpatizzante del Cancelliere, e, anzi, i suoi frizzanti versi di satira circolavano abbondantemente nella gioconda Vienna dei valzer:

“In tempi remoti, prima ancora che il diluvio sommergesse il mondo,

esistevano creature assai strane davvero.

Ce lo confermano i fossili dei mammut

E il sistema del principe Metternich”[2]

Eppure in questa sua tragicommedia egli volle rappresentare nel ruolo di protagonista una figura che sarebbe divenuta poi un diffusissimo tòpos nella letteratura austriaca, da Ferdinand von Saar a Robert Musil: il servitore dello stato, il cui dramma, scrive Claudio Magris, sta nell’eroica e quasi ineccepibile fedeltà, del sacrificio di ogni impulso personale alle proprie mansioni d’ufficio (…) figura antieroica per eccellenza, eppur dotato di tacito eroismo, ha un solo compito, un solo anelito: preservare il paese da discordia e disordine, far andar avanti con la regolarità di sempre la routine giornaliera della cancelleria e dello Stato, come se il re fosse presente[3]. Nell’opera di Grillparzer il suo nome è Bancbano, stoico consigliere del sovrano assente, Andrea, ma, nella mente dei suoi contemporanei, non poté che richiamare alla mente l’immagine di Metternich, il ragno tessitore della Hofburg. Ma, al di la’ della facile identificazione con una figura letteraria, che fu realmente Klemens von Metternich?

Egli nacque il 15 maggio 1773 a Coblenza, in Renania, a cavallo tra il mondo tedesco e quello francese: dunque, nel cuore pulsante dell’Europa. Suo padre, il conte Franz Georg, occupava allora la mansione di rappresentante diplomatico del Sacro Romano Imperatore presso il principe vescovo di Treviri ed apparteneva ad una famiglia della vecchia nobiltà cattolica della Vestfalia, fortemente radicata nella realtà dei principati ecclesiastici del Reno. Padrino di battesimo del futuro cancelliere era stato il principe vescovo Clemente Venceslao di Sassonia, da cui i nomi Klemens e Wenzel; il terzo nome, Lothar, gli proveniva invece da un avo, arcivescovo di Magonza e principe elettore, che all’epoca della guerra dei trent’anni, la prima guerra civile di portata europea, amministrò per conto dell’imperatore i feudi di Winneburg e Beilstein sulla Mosella, feudi che poi ricevette come possesso ereditario. Metternich non era dunque un austriaco nel senso geografico del termine, ma s’inserì a pieno titolo nel solco della tradizione universalistica asburgica, della quale erano stati notevoli esempi Raimondo Montecuccoli ed Eugenio di Savoia e che aveva fatto la grandezza della casa d’Austria, tradizione della quale il giovane conte renano fu l’ultimo grande epigono tedesco.

Metternich fu prima d’ogni altra cosa, per educazione e per gusto, un uomo del XVIII secolo, e nella sua forma mentis permase per tutta la vita l’impronta delle lezioni impartitegli a Coblenza e a Strasburgo dall’abbé Betrand e da Johann Friedrich Simon. Quest’ultimo, un protestante proveniente dal Philantropium di Dessau, gli impartì la massima che Metternich avrebbe fatto propria negli anni della diplomazia: “l’esperienza e la riflessione sono le uniche, grandi maestre dello spirito umano”.

Il Medioevo e la mistica religiosità dei pensatori controrivoluzionari non interessarono mai il giovane conte renano. Egli fu, appunto, in tutto e per tutto un uomo del 1700: il secolo dell’ordine e dell’equilibrio, della pace in Europa, se non per le poco cruente guerre dinastiche, della joie de vivre, del buon gusto[4]. Se fosse nato mezzo secolo prima, sarebbe stato un consigliere degli imperatori illuminati, un altro Kaunitz. Gli toccò invece di servire ai tempi dell’imperatore Francesco, der gute Kaiser Franz, un uomo freddo e distaccato, metodico ed amante della famiglia, prototipo del Biedermeier e della stabilità che vide nel suo cancelliere il suo unico amico. Nessuna personalità più differente dalla sua: Metternich era noto come un amabile conversatore e tombeur de femmes, elegante, mediamente colto e sicuro di sé. Eppure, l’Imperatore e il suo Cancelliere si sostennero vicendevolmente per quasi trent’anni, e, alla scomparsa di Francesco nel 1835, anche la stella di Metternich avrebbe incominciato lentamente a declinare a partire dalla corte viennese. Ma allora erano già trascorsi più di quarant’anni dalla fuga del giovane conte dalla Strasburgo giacobina, nel 1789.

L’Europa del Congresso di Vienna (1814-1815)

Per Metternich la rivoluzione rappresentò un vero e proprio shock, come lo sarebbe stata un secolo e mezzo più tardi la rivoluzione d’ottobre per la gentry britannica. La rivoluzione francese individuò un incolmabile punto di rottura, un capovolgimento degli equilibri non solo sociali e giuridici ma anche, e soprattutto, politici e diplomatici. Il secolare equilibrio europeo che, traendo le proprie radici dagli scritti del grande precursore spagnolo del moderno diritto internazionale, il domenicano Francisco de Vítoria, si era retto in maniera più o meno stabile fin dalla pace di Vestfalia, era stato rotto. E, nel contempo, mutava, da parte degli stati belligeranti, la concezione di guerra: da guerra tra stati e tra case regnanti, nel rispetto dello ius publicum europaeum, ecco che l’avvenimento bellico veniva radicalizzato e posto, su entrambi i lati dello schieramento, sul piano dell’ideologia. Dunque, secondo la definizione di Carl Schmitt, l’avversario non più come inimicus, bensì come hostis, nemico ideologico da distruggere.

Metternich, giovane diplomatico ora al servizio dell’Imperatore, si trovò catapultato dagli agi alle raffinatezze del XVIII secolo dinnanzi ad un tale scenario. E, come esponente del secolo dei lumi, egli portò avanti la sua azione politica. Questa sarà ad un tempo la sua forza, garantendo una politica accorta e moderata, lontana da qualsiasi fanatismo, e il suo limite, ancorandolo al passato.

Senza addentrarsi nei meandri dei giochi e dei trabocchetti della diplomazia europea di primo Ottocento, basterà ricordare che il futuro Cancelliere, in quegli anni ambasciatore a Dresda e Parigi e poi ministro degli esteri, non rappresentava certo uno dei falchi della politica austriaca ma, al contrario, uno dei fautori della mediazione e del compromesso colo colosso napoleonico, in vista di una possibile futura revanche: basti pensare al matrimonio tra l’imperatore dei Francesi e Maria Luisa d’Asburgo voluto e proposto dal ministro asburgico. Egli volle riproporre, nei disordini del XIX secolo, quella che era stata la balance of power degli stati nel secolo precedente allo scopo di garantire la pace in Europa e la continuità con il sistema precedente. Un’impresa vana e non certo romantica, ma che forse merita più attenzione e riguardo di quanto le siano generalmente attribuiti.

La principessa Dorothea Lieven in un ritratto del 1813 ad opera di Sir Thomas Lawrence

Il vertice di questa politica fu rappresentato dalla sua azione politica e diplomatica al congresso dei sovrani e dei plenipotenziari da lui proposto a Vienna, la capitale della nuova Europa postrivoluzionaria. Fu qui che Metternich, ora principe dell’Impero, si trovò a scontrarsi con una visione della politica controrivoluzionaria diametralmente opposta alla propria e personificata dallo Zar Alessandro I. Al di là della personale reciproca antipatia e della rivalità tra due personalità affascinanti all’interno della civiltà dei salotti, l’imperatore russo e il Cancelliere austriaco erano destinati allo scontro. Metternich aborriva il misticismo dei circoli spiritualisti vicini allo Zar e con Lord Castlereagh poteva ben esclamare, riguardo alla Santa Alleanza desiderata da Alessandro: a piece of sublime mysticism and nonsense[5]! Inoltre, proprio con Alessandro, la Russia incominciò a porre le basi per quella che sarebbe stata la sua politica da grande potenza estendendo gradualmente la propria influenza alla Mitteleuropa e causando un danno all’equilibrio europeo non diverso dai nazionalismi tedesco e italiano. Di fatti, l’errore di valutazione cui spesso si incorre nei confronti dello statista austriaco e del Congresso di Vienna in generale, è quello di sovrapporre l’ideologia e la volontà legittimistica di alcuni alla necessità di reagire, dal punto di vista delle relazioni internazionali, alla frattura e allo squilibrio generatisi con le guerre rivoluzionarie. In quest’ottica devono essere collocate anche le misure nei confronti dei nazionalismi e il ritorno alla frammentazione dell’area tedesca e di quella italiana[6], senza, naturalmente, nulla togliere ai mezzi con cui esse furono applicate. Il Congresso di Vienna fu, dunque, nella volontà di Metternich, l’ultimo atto di un’Europa non ancora divisa dal nazionalismo, nel tentativo preservare sé stessa.

I primi anni della Restaurazione furono un periodo d’oro per Metternich: non era forse egli il salvatore d’Europa da Napoleone, come amava definirsi? Eppure i primi colpi dal sistema da lui creato non tardarono a giungere, primo tra tutti la guerra d’indipendenza greca, l’avvenimento che mise in discussione l’ordine di Vienna e che avrebbe posto le basi ai conflitti balcanici.

Metternich perse ben presto il ruolo di arbiter Europaeum di cui si era voluto fregiare ma, lavoratore instancabile, si impegnò in politica interna per garantire nei limiti del possibile la continuità, fondendo il centralismo giuseppino con la sua personale concezione federativa dello stato, appunto atto a garantire una balance of power, garantita dall’alto, tra gli stati e le nazionalità. Così si ebbero la censura e la polizia segreta, e la formazione di quel sistema che in Austria, a parte leggere modifiche, sarebbe durato ancora a lungo, la cui essenza può essere desunta dalla definizione che ne diede lo stesso Cancelliere: la conservazione della pace, della tranquillità e dell’ordine, la politica della resistenza.

L’ormai anziano statista trascorse gli ultimi tredici anni di governo dopo la morte dell’imperatore Francesco in perenne lotta con quelle fazioni interne alla corte che miravano ad esautorarlo appoggiando il rivale conte Kolowrat, cullandosi nella gloria di un sistema ormai ai limiti del collasso, un sistema al quale, pur riconoscendone i limiti, non era capace di trovare alternative, limitandosi ad arginare le forze che lo avversavano. Divenne dunque un prigioniero di sé stesso e della propria creazione, senza trovare una via d’uscita dal tunnel oscuro nel quale l’Europa procedeva. Forse l’immagine della tragicità storica di Metternich risiederà, più che nell’onesto Bancbano di Grillparzer, in Julian, il governatore in Der Turm di Hugo von Hofmannsthal. Egli, inconsapevole della portata dei propri atti, arriva ad allevare nell’oscurità e a riportare sul trono quel principe Sigmund, la cui forza smuoverà la stato provocandone la distruzione, prima che anche questi si accorga, con Calderón de la Barca, che la vita non è che un sogno e che tutto è vano.

Per Metternich la resa dei conti venne con la rivoluzione del 1848, quando la casa d’Asburgo gli porgerà il ben servito e non gli resterà che fuggire trascorrendo in viaggio, peregrino per l’Europa, diversi anni. Sarà Francesco Giuseppe, il suo pupillo, a richiamarlo in Austria, ventilando persino l’ipotesi, dopo la scomparsa del principe Schwarzenberg, di affidare nuovamente il cancellierato all’ottuagenario Metternich: più uno spauracchio che una seria possibilità.

Nel 1859, anno della sua scomparsa, il vecchio principe d’Europa aveva ottantasei anni ed era uno dei più anziani grandi uomini della sua generazione ancora in vita. Da tempo erano scomparsi Castlereagh e Alessandro, l’imperatore Francesco e Napoleone. Gran parte delle donne che erano state importanti nel corso della sua vita, Dorothea Lieven, Katharina Bagration, la duchessa di Sagan, non erano più. Come ricorda Herre, Friedrich Hebbel scriveva che non erano rimasti che il naturalista Alexander von Humboldt, Radetzky e Metternich stesso, e pareva che essi, sempre confortandosi a vicenda con l’esempio offerto dall’altro, vivessero così staccati da tutto che chi li osservava riteneva che non dovessero morire mai[7]. Ma se egli restava ancora in vita, la storia correva, nella cabine di un cavallo a vapore, in tutt’altra direzione. Il 4 giugno le truppe austriache furono sbaragliate dai franco-piemontesi nella battaglia di Magenta.

Pochi giorni prima che, l’11 giugno, anche Metternich si spegnesse nella sua villa di Rennweg, gli fece visita il diplomatico conte Hübner. Egli ricordò: trascorsi l’intera settimana con lui. Facemmo una breve passeggiata in giardino ed egli si appoggiava al mio braccio. Rimasi colpito notando quanto poco pesava. Poi lo seguii nella sua stanza da lavoro. Discorreva con vivacità, eccitato. Al momento del commiato mi ripeté una volta di più, quasi sottolineando le parole: ‘Io fui una rocca dell’ordine’[8]. Potrebbe bastare questo come epitaffio per il vecchio Cancelliere che, fino alla fine, volle cullarsi nelle illusioni. Eppure, a duecento anni dal compimento della sua opera terrena, non potremo fare a meno di non rammentare la validità a posteriori di non poche della sue intuizioni di politica internazionale, intuizioni delle quali sarebbe bene fare tesoro, e ricordare che con lui scomparve l’ultimo grande statista di levatura non solo nazionale, ma europea.

[1] Isaiah Berlin, Freedom and Its Betrayal, Six enemies of human liberty, traduzione italiana di Giovanni Ferrara degli Uberti, La libertà e i suoi traditori, a cura di Henry Hardy, Adelphi, Milano, 2005.

[2] In Franz Herre, Metternich. Staatmans des Friedens, traduzione italiana di Lydia Magliano, Metternich, introduzione di Indro Montanelli, Bompiani Editore, Milano, 1992

[3] Claudio Magris, Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna, Einaudi Editore, Torino, 1976.

[4] Può forse valere per Metternich uno degli escolio di Nicolás Gómez Dávila: , Il Settecento fu il secolo dell’occasione mancata. C’era allora una natura civilizzata ma non vinta, una tecnica ingegnosa ma non opprimente, una società ordinata che non oscillava ancora tra solitudine individuale e asfissia collettiva. Tuttavia il Settecento non seppe mantenere il proprio equilibrio e preferì progredire, in Escolios a un texto implícito I, traduzione italiana di Lucio Sessa, Tra poche parole, a cura di Franco Volpi, Adelphi, Milano, 2007.

[5] In Dieter Groh, Russland und das Selbstverständ Europas. Ein Beitrag zur europäischen Geistgeschichte, traduzione italiana di Claudio Cesa, La Russia e l’autocoscienza d’Europa, Einaudi, Torino, 1980.

[6] Al contrario, è lecito rimanere perplessi di fronte alla nuova spartizione della Polonia, ma occorrerà ricordare che, nel corso del congresso, essa era stata in parte ridefinita come Regno del Congresso, con preventiva funzione di stato cuscinetto tra Prussia e Russia, semindipendente e in unione personale con la seconda, statuto che fu poi modificato dallo stato zarista.

[7] In Franz Herre, ibidem

[8] Ibidem

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Niccolò Nobile

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