Analisi. Il realismo della Turchia nello scacchiere mediorientale

Erdogan
Erdogan

La strage di Ankara sabato scorso ha innescato sulla stampa internazionale – e su quella italiana in particolare – una ridda di ipotesi, per lo più campate in aria. In particolare si tende ad accentuare la (presunta) colpa di Erdogan – responsabile, se non proprio di “strage di Stato” come ha titolato, nostalgico, “Il Manifesto” – per lo meno di aver acuito la tensione internazionale ed interna con i raid militari contro i Curdi e con un intervento in Siria che in molti considerano tiepido o, per lo meno, tardivo.

Lungi da noi voler negare i molti errori politici commessi da Erdogan e dal suo sodale e ideologo il premier Davutoglu, soprattutto negli ultimi mesi; errori nella gestione, in particolare, delle relazioni politiche allo stesso AKP, che sta portando ad una frattura insanabile con il suo predecessore Gul. Tuttavia le scelte di Ankara in politica estera in questi ultimi mesi e gli interventi militari stessi, ci sembrano palesemente dettati dalla necessità, e non frutto di avventurismo o balzane ambizioni di quello che, molti, chiamano il Sultano.

Da quando è cominciata la crisi siriana, la Turchia si è trovata sottoposta ad una incredibile pressione: tra i due e i tre milioni di profughi rifugiatisi nel suo territorio ed ospitati, per oltre tre anni, senza aiuto alcuno dall’Europa. Che si è svegliata solo di recente, sotto la minaccia di Ankara – in parte già inverata si – di aprire la porta dei Balcani alle masse di migranti.

L’intervento militare n Siria è stato rallentato non da una qualche simpatia per i jihadisti dell’IS – verso i quali Ankara non ha mai nutrito davvero alcuna tolleranza – ma da due precise preoccupazioni. In primo luogo il timore di attentati jihadisti in territorio turco; e i fatti di Ankara dimostrano che non si trattava di timore infondato.

Poi, l’impossibilità di decifrare chiaramente lo scenario politico del conflitto siriano. Dove l’intervento di Washington ed alleati è sempre apparso più d’apparenza che di sostanza, basti pensare che i raid aerei della coalizione assommano in un intero anno, a meno di quelli che gli USA compivano in un solo giorno contro l’Iraq di Saddam durante la Guerra del Golfo. Una cosa inefficace e, in sostanza, risibile. Ed è poi sempre stato chiaro che Washington, Parigi e Londra non hanno mai avuto e continuano a non avere un chiaro progetto per la Siria del dopo Assad. È questo per Ankara rappresenta un grosso problema, in quanto – problema dell’IS a parte – potrebbe veder affermarsi un regime di ispirazione salafita eterodiretto dai rivali sauditi; e, soprattutto, il riconoscimento dell’indipendenza del Kurdistan siriano. Dove il locale YPG, la milizia curda, è legata a doppio filo con il PKK, il Partito comunista curdo che opera in Turchia. PKK con il quale Erdogan aveva, negli scorsi anni, cercato un accordo, arrivando a siglare una tregua con il vecchio leader Ocalan detenuto in carcere, e a progettare uno status di ampia autonomia per le province turche a maggioranza curda. Tuttavia, i successi dei curdi in Siria e il crescente appoggio internazionale alla loro causa ha mutato lo scenario: un nuovo gruppo dirigente – di stretta osservanza marxista-leninista, ha giubilato Ocalan è scatenato una nuova offensiva terroristica a partire dall’ 11 giugno scorso. Pochi giorni dopo le elezioni che da un lato avevano visto abortire il progetto presidenzialista di Erdogan – cui è mancata la maggioranza necessaria per la riforma costituzionale – dall’altro emergere un partito curdo che, entrando nel gioco istituzionale, avrebbe potuto togliere la rappresentanza dei diritti del popolo curdo al PKK che l’aveva, sino a quel momento, egemonizzata. E in sostanza anche usurpata, visto il radicalismo del gruppo non condiviso dai molti milioni di curdi che vivono pacifici come cittadini turchi.

La recrudescenza di attentati e guerriglia del PKK ha provocato la dura reazione di Ankara, dove Erdogan ha, in questo, trovato l’appoggio sia dei nazionalisti, i famosi Lupi Grigi, sia dei repubblicani kemalista. Va comunque sottolineato come i raid turchi sono diretti contro le basi, anche in Siria, da cui operano i guerriglieri del PKK, e non contro tutti i curdi indiscriminatamente. Tant’è vero che i rapporti fra Ankara e il Kurdistan iracheno, di fatto indipendente sotto la guida del leader locale Barzani, restano ottimi. Anche perché il petrolio di Kirkurk, principale ricchezza del Kurdistan iracheno, V iene venduto nel mondo per tramite della Turchia.

*Senior Fellow del Think Tank “Il Nodo di Gordio”

www.nododigordio.org

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Andrea Marcigliano*

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