Scintill&digitali. Modernità compulsiva e virtuale: senza Facebook siamo perduti?

Opposition supporters rest in Tahrir Square in Cairo“Facebook down”, l’urlo iconoclasta che si sparge sui social network (superstiti) ogni volta che il sito di Zuckerberg non funziona, è il richiamo di tutti gli orfani social, ma anche un grande esperimento sociale.
Già, perché quale migliore occasione per rendersi conto?

Rendersi conto, anzitutto, della necessità di avere un pubblico. Vasto, più o meno anonimo, non possiamo più vivere senza essere osservati e giudicati (premiati) a suon di like, commenti e condivisioni.

 

Facebook non funziona! Dove lo posso scrivere?

Nell’epoca del network globale il medium non è più funzionale, ma finale. Non è più solo il messaggio, ma la possibilità stessa che esista un messaggio. Il medium qualifica il messaggio, gli conferisce una dignità di esistenza superiore all’esistenza di fatto non “certificata”. Vale a dire: una notizia falsa virale può pesare più di una vera non diffusa, soprattutto nell’era delle speculazioni. Se ci troviamo per qualche minuto spogli della possibilità di contagiare con una cretinata il (nostro) mondo ci sembra di essere isolati.
Una sensazione, quella dell’isolamento, che non sappiamo provare, da almeno dieci anni.

 

“Anche senza social network, non ho comunque una vita sociale.”

Ci si può rendere conto, quindi, di essere soli e di come la solitudine sia stata in un certo modo abolita.
È però ancora più odiosa e insopportabile. Non si può certo dire che la solitudine non esista, anzi: basta guardarsi attorno. Esistono ancora, forse più che mai, solitudini umane, ma non più solitudini intese come scollegamenti, vuoti di comunicazione. Non ci sono più silenzi, abbiamo sempre horror vacui.
La mia squadra che segna, mio figlio che gattona, una battuta spiritosa fatta al bar col mio amico: cosa sono tutte queste cose se non le posso condividere?

E cosa è delle vite degli altri se non le ricevo, se non le posso spiare?

 

C’è una nuova solitudine, assieme alla vecchia: è la solitudine dell’eterno presente.  I social sono il modo di comunicare l’attualità. L’infinito, immenso, mutevole istante nel quale ormai unicamente siamo immersi. Non c’è passato, non c’è futuro, non ci sono distanze né desideri reali o progetti. Ci sono solo presenze e assenze, rumori e silenzi. Tutto o il nulla. Siamo ancora in relazione anche se non ci controlliamo, potenzialmente, minuto dopo minuto?  “facebook down, la gente disperata scende in strada a mostrare ai passanti i propri gatti, o i piatti in cui sta mangiando“, scrive qualcuno ironicamente su twitter,  ovvero “il social che serve a scrivere che facebook non funziona“. Ma anche i twitter-nerd, anche gli iper-critici, ripetono le dinamiche presenti su facebook: criticare significa di fatto, in questo caso, avallare e legittimare.

 

Ormai hanno vinto, non c’è più nulla da fare. Le reti trionfano. L’attuale è esteso a eterno, l’eternità non è più d’attualità, importa solo il qui-e-ora. Siamo anti-quantistici, esistiamo se ci vedono. Se siamo celati al mondo, non esistiamo più. A-sociali e ultra-social, se non ci guarda nessuno ci sentiamo nudi, se non guardiamo ci sentiamo ciechi. È il trionfo dello sguardo dello spettatore, che è uno sguardo diffuso e inesistente, il trionfo della globalità. La supremazia dell’animale politico uomo nella sua variante chiacchierona. Mezz’ora senza facebook è già un insopportabile silenzio. Come scriveva Tolstoj, con largo anticipo sullo stupore, la felicità è vera soltanto se condivisa. Su facebook.

@barbadilloit

Andrea Tremaglia

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