Amarcord. “Scusa Ameri” e la nostalgia degli anni settanta (del calcio)

Il camerata Enrico Ameri e Sandro Ciotti
Il camerata Enrico Ameri e Sandro Ciotti

C’era una volta il calcio degli anni Settanta. Senza Sky, senza anticipi e posticipi, senza Daspo. Allo stadio s’andava esclusivamente la domenica pomeriggio, spesso con la cravatta del giorno di festa e con la giacca che però ben presto finiva a penzoloni sul braccio, mentre per la rabbia di un rigore non assegnato alla tua squadra prendevi a pedate il tabellone pubblicitario di compensato dell’Aperol attaccato alla rete della curva, rovinandoti le scarpe nuove.
Era il calcio raccontato alla radio da Enrico Ameri, Roberto Bortoluzzi e Ezio Luzzi e di quando i gol della serie A avevi solo due occasioni per rivederli in Tv: alle 18 a Novantesimo Minuto e alle 22 alla Domenica Sportiva, moviola compresa. I giocatori erano personaggi anche senza personal coiffeur, e – soprattutto – gli allenatori, intervistati, non dicevano banalità.
C’erano i due HH:  Heriberto ed Helenio Herrera. Né fratelli, né connazionali. Il primo era nato in Paraguay, mentre il secondo in Argentina anche se sulla sua data di nascita restò sempre un velo di mistero, in linea con un personaggio la cui vita fu quasi un romanzo degno di Garcia Marquez. Fu lui il più famoso in Italia, soprattutto per merito della grande Inter che allenò negli anni Sessanta, tanto che secondo i maligni l’arrivo di Heriberto sulla panchina della Juventus in quegli stessi anni sembrò una sorta di dispetto ai rivali per togliergli l’esclusiva dell’Herrera e anche quella dell’HH. Fatto sta che entrambi gli HH furono, a modo loro, degli innovatori. Helenio credeva nel movimiento, mentre Heriberto puntava sul collettivo. Ma il concetto – oggi diremmo grillino – secondo cui uno vale uno e “Coramini vale Sivori” gli costò la panchina della Juve. Così Heriberto finì alla Samp e anche Helenio negli anni successivi si accasò alla Roma, senza rinunciare alla patente di Mago e alle sue famose polemiche, oltre che ad un ingaggio di 259 milioni di lire l’anno.
Una volta che era in ritiro a Spoleto con i giallorossi, dopo i consueti esercizi di yoga mattutini, per poco non gli venne un colpo. Sul giornale aveva appena letto una dichiarazione di Nereo Rocco, il paròn, allenatore del Milan, un altro personaggio a tutto tondo con una filosofia di gioco completamente opposta. Rocco attaccava Herrera accusandolo tra l’altro di non aver insegnato niente al calcio italiano e che – essendo straniero e non condividendo nulla del nostro calcio – avrebbe fatto meglio a restarsene in Argentina. Herrera non ci pensò su: convocò una conferenza stampa e – nel suo curioso esperanto – replicò a Rocco accusandolo perfino di essere di cattivo esempio per i suoi giocatori in quanto troppo grasso. “Ha smesso da tempo di fare l’allenatore per trasformarsi in indossatore modello damigiana”, disse, riferendosi ad uno spot che Rocco aveva accettato di girare per una nota marca di abiti.

Mazzola con Herrera

“Herrera – scriveva Gianni Brera – ha la spocchia francese e la supponenza spagnola: parla bene in francese e spagnolo, ma in italiano fa gli strafalcioni che danno prestigio in un Paese di ciolle come il nostro”.

I suoi nemici lo definivano un gran fanfarone Habla-habla. Ma lui negli spogliatoi ai suoi ragazzi ripeteva: “Perché non provare ad essere perfetti?”. E nell’Italia di Rivera, Mazzola, Gigi Riva e dei grandi solisti teorizzava: “Chi gioca per se stesso gioca per gli avversari, chi gioca per la squadra, gioca per se stesso”.

Stessi concetti, ma ancor più estremizzati, li predicò in quegli stessi anni un altro profeta incompreso. Un altro allenatore-personaggio, quel Corrado Viciani che fece il miracolo di portare in serie A una provinciale come la Ternana, con il suo gioco corto, che oggi tutti riconoscono unica anticipazione del tica-taca.

Viciani era uno strano tipo, burbero, ma uomo di cultura. Una volta all’Olimpico prese a ceffoni un suo giocatore che voleva lasciare il campo in preda ad una crisi di nervi. Nelle sue interviste citava il Caligola di Camus. Diventato l’eroe di una città storicamente comunista, un giornalista dell’epoca arrivò a condensare le sue massime in un curioso “Libretto rosso(verde)”, facendo il verso a Mao Tse Tung e giocando con i colori sociali della sua squadra. “Anche il calcio ha il suo Mao: d’altronde il campionato della Ternana si può ben paragonare ad una lunga marcia”. Lui, Viciani, che comunista non è mai stato, c’avrà riso su. In compenso dava la sua ricetta non proprio “dem” per gestire lo spogliatoio: “In una squadra bisogna ragionare con una testa sola: quella dell’allenatore, sennò è il caos. Dicono che instauro la dittatura: a parte che non è vero, devo precisare che in assoluto le dittature non mi dispiacciono, anche se preferisco Pericle a Adolf Hitler”.

C’era una volta il calcio degli anni Settanta, quello in cui le personalità forti non mancavano e le storie da raccontare erano tante. Anche se non c’era Sky.

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Gian Luca Diamanti

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