StoriediCalcio. Ghiggia ha raggiunto Barbosa: passeggiano nei Campi Elisi del futébol

Il celebre gol segnato da Ghiggia
Il celebre gol segnato da Ghiggia

Da qualche giorno Alcides Edgardo Ghiggia e Moacyr Barbosa stanno celebrando l’incontro rimandato da sessantacinque anni passeggiando per i Campi Elisi del futébol. E ridono di cuore di quella partita che fece del primo un eroe e del secondo un reprobo. L’ala destra della Celeste ed il portiere verde-oro adesso se lo possono permettere. Sul prato che attraversano non ci sono che loro. E non arrivano gli schiamazzi del mondo che hanno accompagnato rispettive esistenze. Moacyr stava aspettando Alcides da qualche anno. E certamente non gli racconterà del trattamento riservatogli dai suoi connazionali. Il suo antagonista che lo condannò all’oblio (Barbosa direbbe alla morte civile) ha seguito le traversie del grande portiere. E quasi si è scusato, tempo dopo, insieme con il suo compagno di squadra Schiaffino, per aver rubato un sogno ad una intera nazione. Acqua passata. Non c’è posto per lacrime lassù dove sono ora. E se Alcides s’è portato l’antico orgoglio che gli fece dire “Solo tre persone sono riuscite a zittire il Maracanã: Frank Sinatra, papa Giovanni Paolo II e io”, Moacyr è rimasto silenzioso attendendolo, in compagnia del suo dolore.

La finale mundial Brasile-Uruguay al Maracanã di Rio de Janeiro nel 1950

Era il 16 luglio 1950, nell’ultima partita, al Maracanã di Rio de Janeiro contro il Brasile, davanti a 200.000 spettatori, fu un assist di Ghiggia a propiziare il pareggio di Schiaffino. Poco dopo, con cross in diagonale dello stesso Schiaffino, Ghiggia realizzò il goal della vittoria che valse agli uruguayani la Coppa Rimet per la seconda volta nella loro storia. Alla fine dell’incontro, tra i pianti, le risse e gli attacchi cardiaci, Ghiggia venne aggredito da alcuni teppisti: rientrò in patria appoggiandosi alle stampelle e con la gamba sinistra fratturata, tanto che rimase fermo per circa un anno. A Barbosa gli diedero la caccia e venne espulso dalla nazionale nei cui ritiri, neppure decenni dopo, poté mettere più piede. Adesso, insieme, staranno calpestando i giornali di allora. Quelli brasiliani, in particolare, che il giorno dopo titolarono quasi tutti alla stessa maniera: “Nunca mas”, mai più.
Il capitano della “Celeste”, Obdulio Varela, che aveva guidato la sua squadra ad una impensabile vittoria da quel giorno non fu più lo stesso. Di fronte all’esplosione del dolore di un popolo si sentì quasi in colpa per averlo provocato. Il Brasile era disperato per sua responsabilità. Così credeva. Gli dèi del pallone che talvolta si nascondono nei recessi più impenetrabili della foresta amazzonica, gli misero addosso una maledizione dalla quale non si riprese mai il mite, saggio, onesto Obdulio.
Così come non si riprese mai dall’accusa di non aver parato i micidiali tiri di Schiaffino e Ghiggia, appunto Barbosa che fino alla morte, avvenuta il 7 aprile 2000, si sentì come un esule in patria. Fu uno uno dei migliori portieri della storia brasiliana, insieme con il mitico Gilmar. Soleva dire che soltanto per lui in Brasile non c’era perdono. E pensare che non aveva nessuna colpa. Una tragedia perché forse gli spiriti del futebol per qualche istante si distrassero e volsero lo sguardo altrove, lontano dal Maracanà.
Friaca, autore del primo e unico gol brasiliano, pianse a lungo. Come i suoi compagni di reparto, un attacco atomico: Zizinho, Ademir, Jair e Chico. Sugli spalti dello stadio appena inaugurato gli spettatori cadevano come mosche. Fuori qualcuno moriva.

La sfida del Maracanà come la battaglia di Salamina

Una ricostruzione della battaglia di Salamina

Sessantacinque anni fa una partita di calcio divenne un sacrificio collettivo. Come soldati a Salamina, i brasiliani nelle vesti dei persiani sconfitti da Temistocle non ebbero la forza di reagire e ripiegarono nella sofferenza, fino al 1958 quando in Svezia sorse una nuova stella: un ragazzo che non aveva ancora compiuto diciotto anni, si chiamava Edson Arantes do Nascimento, il mondo lo avrebbe conosciuto ed osannato come Pelé. Con lui la lunga strada della rinascita si poteva finalmente intraprendere. La storia avrebbe detto che gli dèi del calcio a lungo sarebbero tornati ad abitare le terre brasiliane, celandosi a tratti e riapparendo comunque, ma sempre amando i loro eroi come Varela, Barbosa, Ghiggia e poi i due Santos e Garrincha e la sontuosa compagnia sudamericana che ha officiato il rito più pagano del nostro tempo, sontuoso ed appassionato.

Ghiggia in Italia

Con Ghiggia se n’è andata anche una parte della memoria del calcio italiano. Nel maggio 1953, durante un’assemblea dei soci al Teatro Sistina, il Presidente della Roma Renato Sacerdoti annunciò l’acquisto dell’uruguayano che giocava nel Penarol di Montevideo, ed esordì il 4 giugno successivo. Coi giallorossi giocò otto campionati, ma non vinse neppure uno scudetto. Nel 1957-58 divenne capitano e poco dopo venne naturalizzato italiano. A trent’anni suonati fu convocato nella Nazionale italiana, come naturalizzato dove ritrovò l’antico compagno di squadra Schiaffino, ormai trentaduenne e anch’egli naturalizzato. Ma l’Italia fallì, nonostante loro, per la prima e unica volta, la qualificazione mondiale, perdendo a Belfast con l’Irlanda del Nord per 2-1, pur bastando un pareggio. Gi dèi spesso si prendono ciò che hanno dato. Ghiggia nel 1962 fu acquistato dal Milan, dove vinse (ma con sole 4 presenze) lo scudetto nel 1961-1962. Al termine di quella stagione decise di ritornare a Montevideo.
Giocò ancora nel Danubio fino a quarantadue anni, e si ritirò nel 1968. Nel 1980 allenò il Peñarol, dopo aver passato alcuni in una sala da gioco guadagnandosi da vivere facendo il croupier.
E’ morto il 16 luglio, nel sessantacinquesimo anniversario della sua più importante vittoria. Aveva ottantanove anni. Stava guardando una partita di calcio alla televisione. Gli dèi gli hanno voluto bene fino alla fine regalandogli l’ultimo sguardo sul suo mondo.
Alcides Ghiggia e Moacyr Barbosa di questa circostanza non staranno ridendo.

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Gennaro Malgieri

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