Cultura. Ernst Jünger viandante nelle tempeste d’acciaio

Ernst Junger
Ernst Junger

Il 17 febbraio 1998 nella sua casa di Wilflingen Ernst Jünger chiudeva per l’ultima volta gli occhi chiari, e il grande vecchio della moderna letteratura tedesca si spegneva a pochi giorni dal suo centotreesimo compleanno. Appena bambino aveva visto morire il secolo di Napoleone, di Wagner, di Bismarck, e aveva veduto il sorgere del secolo breve. Nato quando Berlino era attraversata dai primi tram elettrici e ancora si vedeva qualche carrozza, Jünger vide l’epoca del fuoco e dell’acciaio, poi quella della plastica, e scelse di andarsene quando il mondo intraprendeva la strada della virtualità… Chissà quanti volti, quanti amori, quanti ricordi saranno passati inesorabili davanti agli occhi dello scrittore in quell’ultima notte di febbraio… Trincee sulla Somme, fango misto a sangue, nubi di gas, occhi e volti troppo freddi per essere umani, corpi dilaniati… E dune nel Sahara, la morte che ti corteggia, anelante un bacio. Le angosce e le speranze nel dopoguerra, bande di soldati, fogli clandestini e sparatorie nella notte; un’altra guerra, e poi un mondo di uomini “come api di vetro”… Ma non credo che lui avesse rimpianti. Aveva vissuto l’esistenza in tutta la sua pienezza… non gli era rimasta che la vecchiaia inquieta di un sopravvissuto a sé stesso, quella di un anziano, saggio condottiero che ancora non riesce ad abbandonare i mortali per ricongiungersi con gli dei.

Una produzione letteraria immensa

La sua è una produzione letteraria sterminata, una vera e propria pietra miliare della letteratura europea del secolo scorso. Non basta aver letto due o tre delle sue opere per comprenderlo tanto sono varie e differenti a seconda del periodo: l’etica di Eumeswil e dell’anarca, non è quella del Tenente Sturm e del guerriero, né quella di Sulle scogliere di Marmo, un atto di epica denuncia del nazismo e della sua barbarie, legittimi figli della modernità. Ma ognuna di esse è funzionale all’altra, ognuna fa parte di un percorso umano ed intellettuale che prendendo le mosse dalla glorificazione dell’uomo dominatore e fautore della tecnica, porta alla critica dell’uomo-automa dei nostri giorni.

Nelle Tempeste d’Acciaio

Senza dubbio la più celebre è Im Stahlgewittern (Nelle Tempeste d’Acciaio), edito nel 1920 per la prima volta, vero e proprio libro cult per la generazione tedesca del primo dopoguerra del quale oggi, a cent’anni dalla Grande Guerra è doveroso riscoprire il valore. E’ la prima delle opere di Jünger, una di quelle che lui definì appartenenti al suo “Vecchio Testamento”, ed è il primo tra suoi testi di guerra. Nata dalla rielaborazione di appunti e diari scritti dal giovane ufficiale, racconta l’esperienza dei suoi quattro anni sul fronte occidentale. Alcuni la considerarono un’opera di glorificazione della guerra, altri non videro che una narrazione oggettiva e poco sentimentale dei fatti bellici, molto lontana dalle opere dei suoi coetanei Lussu o Remarque. Non è nulla di tutto ciò: non è un testo pieno di fanatica esaltazione come quelli di tanti cantori nostrani della bella guerra, ma dall’altra parte sicuramente non vi si coglie l’umano rammarico, lo sconforto delle opere dei pacifisti. Jünger comprende e descrive la guerra, quella guerra, per ciò che era: una lotta al limite dell’umano, l’apice della nichilistica opera di autodistruzione di un mondo ormai privato d’ogni raison d’être e al quale presto dovrà sovrapporsi un altro, forgiato dagli uomini delle trincee. Gli scenari sono quelli di un emisfero al di là dell’umano, “immensi campi di rovine, come oltre i limiti del mondo conosciuto”, una terra di tenebra e desolazione, l’unica luce è il lampo abbagliante degli shrapnels che esplodono tra le macerie. L’epica, l’onore e il coraggio, anche il rispetto per il valore dell’avversario sono i retaggi di un’epoca arcaica di bestiale, necessaria violenza richiamata alla vita, e la sirena dell’aereo nemico non è che “l’urlo di un essere fantastico che vola minaccioso su un deserto”. E l’uomo, il soldato dov’è in tutto questo? Egli, calato nel mondo della trincea, ha perduto ogni sentimento umano per come noi lo intendiamo divenendo parte integrante del popolo della guerra con tutti i suoi riti, le sue convinzioni, il suo sentire: “quella notte, con l’infinità e l’ostilità dei suoi spazi (…) avevo l’agghiacciante sensazione di non trovarmi di fronte a uomini, ma a esseri infernali” scrive il giovane soldato. Se vuole sopravvivere dovrà elevarsi al di sopra degli uomini comuni, sfidando la morte incombente. Fiducia nella vita, coraggio, destrezza: ciò che caratterizza il combattente. Per il giovane Jünger la guerra è un’esperienza interiore oltre che fisica, una lotta per superare sé stesso e divenire qualcosa di più: “la guerra solo un’occasione, i nemici quasi complici di questa volontà, complici e gregari della nostra temerarietà” mentre la pace, il ristoro, il ritorno a casa non sono che “parentesi tra una partenza e l’altra, quasi un’inutile perdita di tempo per cose di poca importanza”, come avrebbe cantato De Gregori. Non so se c’è ancora qualcuno che può comprendere appieno queste pagine: noi guardiamo la storia con gli occhi di chi ormai sa tutto, e la guerra, oggi ancora più presente, brutale e disumana di allora, non esercita più su di noi alcun fascino, come pure la morte, questa sconosciuta che tentiamo di fuggire e scacciare dai nostri pensieri. Eppure… ancora oggi leggendo Jünger possiamo sentire il brivido, la scossa di adrenalina che pervade il giovane soldato negli attimi che precedono l’attacco, l’odore dolciastro e nauseabondo dei cadaveri che “suscitava un’esaltazione dai visionari quale solamente la presenza della morte vicina può produrre”… e vedere lo smarrimento e la disperata ricerca della maschera quando tra gli uomini risuona un grido d’angoscia: “I gas! I gas!”

Sarà un giorno di novembre più cupo degli altri, a porre fine a tutto questo senza che però violenza e tensione si siano placate nei cuori dei soldati. Uscito dalla tempesta d’acciaio a Junger, al giovane angelo della morte non resterà che attendere quasi invano la suprema signora. Passerà la storia, passeranno i grandi: Hindenburg e Ludendorff, Hitler e Stalin, Brandt e Kennedy, Reagan… L’uomo pieno di macabra vitalità che lui aveva colto ammirato fin nelle trincee diverrà una macchina mostruosa, annichilita su sé stessa. Ma non lui, non Ernst Jünger.

Possiamo immaginarlo disteso sul candido letto in quella silenziosa mattina di febbraio: in Germania la luce del sole è tenue, il vecchio ha gli occhi socchiusi. Ed ecco entrare una donna vestita di bianco e d’argento… Ella s’accosta a lui, al suo viso e, baciandolo, mormora: Tu, tu hai vissuto… Lentamente si rialza e pian piano scompare, sempre più lontana. Il vecchio scrittore ha chiuso gli occhi per l’ultima volta.

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Niccolò Nobile

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