Esteri. Yemen, bombardate le mura di Sana’a tra Pasolini e l’ipocrisia dell’Occidente

Sana'a
Sana’a

Ci sono bombe più o meno intelligenti, invasioni più o meno umanitarie, popoli che hanno più o meno la capacità di autodeterminarsi. In Yemen, nell’indifferenza di molti, si combatte l’ennesima guerra interna al mondo islamico tra sunniti e sciiti. La coalizione araba capeggiata dagli “illuminati” sauditi che combatte i miliziani Houthi yemeniti è arrivata pochi giorni fa a bombardare – ovviamente con ordigni dall’alto quoziente intellettivo che però hanno provocato distruzione e morte – la capitale Sana’a e, in particolare, la città vecchia, il quartiere storico Qassimi, scrigno millenario e dal 1986 patrimonio Unesco. Un gioiello sotto forma di un dedalo di sūq, abitato da più di 2.500 anni, con centinaia di moschee e migliaia di edifici costruiti un millennio fa.

Il bombardamento è opera della democraticissima Arabia Saudita. Uno Stato per nulla canaglia, secondo le distorte lenti degli Stati Uniti e dei sodali europei, che considerano i sauditi come principali alleati nello scacchiere medio-orientale. Peccato che si tratti dello stesso Paese in cui la dottrina wahabita viene applicata con rigore: pena di morte, tortura ai prigionieri, ai ladri vengono tagliate le mani e le donne non possono guidare. Un partner in cui i tanto decantati diritti civili vengono calpestati di continuo, senza con questo scatenare i gridolini di sdegno dei tanti censori di Assad, di chi ha eliminato Gheddafi o detronizzato Saddam Hussein. Ma la monarchia saudita ha petrolio (più che ragione) da vendere. E quindi manca il fiato in gola ai tromboni a morale alterna e le condanne del bombardamento in Yemen, quando ci sono, somigliano a bonarie sgridate a cugini lontani, magari solo un po’ discoli ma tutto sommato affidabili simpaticoni la cui pecunia non olet per nulla.

Eppure, gli edifici millenari che crollano sotto le bombe saudite ci riguardano più di quanto si immagini. Non c’è solo l’Isis a minacciare Palmira. Perché le “mura di Sana’a” sono un simbolo di quella «scandalosa forza rivoluzionaria del passato», come la definiva Pier Paolo Pasolini, sempre più accantonata dalla folle corsa verso l’autodistruzione.

Proprio Pasolini girò in Yemen un cortometraggio ch’è una chicca rara di approccio al multiculturalismo e un inno alle differenze, al di là di ogni logica incentrata sull’omologazione culturale che, secondo il poeta friulano, era il vero nemico da combattere. Pasolini si trovò in quella città che definì «Venezia selvaggia sulla polvere, senza San Marco e la Giudecca» nel 1970, per girare alcune scene del Decameron. Decise di restarci e di girare un cortometraggio perché, come dichiarò in un’intervista, quello scrigno conservava un tesoro da preservare rispetto all’incedere della modernità.

«Si tratterà forse di una deformazione professionale, ma i problemi di Sana’a li sentivo come problemi miei – raccontò in seguito -. La deturpazione che come una lebbra la sta invadendo, mi feriva come un dolore, una rabbia, un senso di impotenza e nel tempo stesso un febbrile desiderio di far qualcosa, da cui sono stato perentoriamente costretto a filmare».

Quando, con quella che Carmelo Bene definiva “la sua esile vocina”, l’io narrante di Pasolini racconta che in Yemen «è esploso un indiscriminato desiderio di progresso e di modernità», parla innanzitutto agli italiani, agli europei, già scivolati in maniera irreversibile verso «una strada orribile: il neocapitalismo illuminato e socialdemocratico, in realtà più duro e feroce che mai». Quel canto lontano, arcaico e anti-moderno, ispirato dal lirismo di chi preferisce le lucciole al neon, oggi si perde tra le rovine di Sana’a, calpestate dall’ipocrisia dell’Occidente.

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Mario De Fazio

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