Libri. “Il Mostro dell’Hinterland” di Matteo Ferrario. Un estratto su Barbadillo

Il mostro dell'hinterland

Pubblichiamo un estratto di “Il mostro dell’hinterland”, nuovo romanzo di Matteo Ferrario, in uscita il 13 maggio nelle librerie.

Oggi andrà all’asta la villetta bifamiliare dell’hinterland milanese in cui più di sette anni fa, il 26 agosto del 2005, venni arrestato con l’accusa di duplice omicidio, vilipendio e occultamento di cadavere.

Questo significa che quando uscirò dal carcere – fra sconti di pena e buona condotta passeranno poco più di dieci anni – non avrò un posto dove tornare, nemmeno la casa in cui ho trascorso i primi quarant’anni della mia vita.

Non che me ne importi, a questo punto. Anzi, se fosse per me la soluzione migliore sarebbe quella di restarmene qui dentro, dove al termine dei tre anni di isolamento stabiliti dal giudice sono riuscito persino a imparare un mestiere e a dare qualcosa di simile a un ritmo alla mia esistenza quotidiana.

Ma un giorno mi toccherà tornare là fuori. Vedo quel momento avvicinarsi con il terrore che ho sempre avuto per il mondo esterno.

La vita mi fa paura, le persone mi fanno paura, da sempre.

Non è una cosa buffa, detta da uno come me?

Il mio nome è Riccardo Berio. A molti di voi non dirà nulla, perché è passato un po’ di tempo da quando mi dedicavano paginate intere, interrogandosi sulla fine che possono fare i giovani rimasti in provincia – come se un quarantenne fosse un giovane, Cristo santo.

Ci sono state anche un paio di puntate di Porta a porta e Matrix che, in un modo un po’ perverso, avrebbero reso orgogliosa la mia povera madre. Questo è un colpo basso, lo ammetto, e lei di certo non se lo meritava: in fondo è stata l’unica persona veramente innocua della mia cerchia familiare, tanto che a volte mi sembra non sia mai esistita, un fantasma; era comunque una teledipendente, e una spettatrice assidua di quelle trasmissioni in cui ho avuto anch’io la mia breve ribalta, almeno prima che me la rubassero quei fighetti universitari di Perugia, quelli del caso Meredith Kercher, così giovani, belli e privilegiati che parevano usciti da un romanzo di Bret Easton Ellis.

Io, al contrario, al momento dell’arresto avevo un aspetto che poteva ricordare quello di Peter Lorre ne Il mostro di Düsseldorf.

Ogni singola parte della mia persona, nelle foto pubblicate l’indomani sui giornali, sembrava evocare il protagonista del film di Fritz Lang, dagli occhi grandi e fissi ai capelli neri mollemente scostati dalla fronte. Quel misto di malessere psichico, viscidume e ozio che si potevano intuire dal pallore grassoccio e lucido di sudore e dalla camicia azzurrina portata fuori dai pantaloni. Dall’impressione generale, tanto ineffabile quanto corretta, di un uomo giunto alla mezz’età senza mai essere diventato davvero adulto.

Fin dall’inizio ero stato etichettato come “studente quarantenne fuori corso”. Una qualifica imbarazzante, che tra l’altro non rispondeva del tutto al vero, dato che avevo lasciato la facoltà di ingegneria meccanica del Politecnico di Milano a pochi esami dalla laurea, quando avevo ventiquattro anni, e mi ero nuovamente iscritto solo dopo la morte di mio padre, nel 2004.

Ma l’insinuazione che mi dava ai nervi, quel sottotesto di cui avvertivo la presenza in qualsiasi pezzo o servizio televisivo sul mio conto, riguardava la mia presunta verginità. Sotto quella coltre di aggettivi come “solitario”, “isolato”, “asociale” e “recluso”, utilizzati ogni volta per descrivere la mia routine giornaliera al primo piano della bifamiliare, sopra l’appartamento degli zii che ero accusato di aver ucciso e fatto a pezzi, sembravano tutti dare per scontato che uno con la mia faccia e la mia storia non avesse mai ficcato l’uccello da nessuna parte.

Non importava se fosse vero o no, era questo che passava. Riccardo Berio, per l’opinione pubblica, era uno studente fuori corso di quarant’anni, orfano, senza un’occupazione ma entrato in possesso di un’eredità sufficiente per non cercarsene alcuna, privo di amici e donne. E un giorno d’estate, il soggetto così delineato aveva atteso il ritorno dalle vacanze dello zio e della sua seconda moglie per trasformare il garage della villetta in un “mattatoio”.

Capite bene che in una società come la nostra – anzi, la vostra – questi sono dettagli dal peso decisivo. Ecco perché il sottoscritto era già un candidato all’ergastolo ancora prima che iniziasse il processo di primo grado.

È stato uno dei motivi per cui ho preferito il rito abbreviato: non avevo alcuna speranza di cavarmela, non ci voleva molto per rendersene conto, e allora tanto valeva far durare quel supplizio il meno possibile.

Matteo Ferrario*

Matteo Ferrario* su Barbadillo.it

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