Acca Larentia, una candela contro l’odio

«Il 7 gennaio, alle 21,30, tutti quelli che possono vadano a Ponte Milvio con un lumino a fondo arrotondato da lasciare nel Tevere per Acca Larentia. Illuminiamo il Tevere per Stefano, Franco, Francesco e tutti gli altri che non ci sono più. L’invito è rivolto a singoli e gruppi, senza esclusioni e soprattutto senza rancori né bandiere da sventolare!».

Il 7 gennaio non è una data qualsiasi: il 7 gennaio del 1978 tre giovani militanti del Fronte della Gioventù, Franco Bigonzetti, Francesco Ciavatta e Stefano Recchioni, persero la vita. I primi due assassinati da un commando omicida – un agguato (rimasto impunito) li attendeva fuori dalla sede del Msi al Tuscolano – e il terzo colpito in fronte da una pistolettata esplosa da un ufficiale dei carabinieri nella concitazione che ne seguì, con militanti e dirigenti del partito che si riversavano sul posto. Uccidere un fascista, del resto, non era reato e poco importava che quei fascisti fossero in realtà solo ragazzi, studenti con la passione della politica e della musica, impegnati a “volantinare” un concerto degli Amici del Vento. Neanche Junio Guariento, promotore dell’iniziativa, è uno qualsiasi. Nel 1977, con Mario Bortoluzzi e Stefania Paternò, fondò la Compagnia dell’Anello che, con pochi altri gruppi musicali, diede a chi, in quegli anni, stava a destra, una “colonna sonora”: la musica alternativa.

Junio, come nasce questa tua iniziativa?
«L’idea mi è venuta non appena ho letto che il corteo non era stato autorizzato. Non è più tempo di mostrare i muscoli senza pensare alle conseguenze. Un gesto di forza diventerebbe un boomerang, una miccia che, una volta accesa, non si sa dove potrebbe far scoppiare “l’esplosivo”. Un gesto simbolico, invece, per quanto silenzioso, può risultare deflagrante più di mille urla. Accendere un lumino sull’acqua credo possa cogliere diversi obiettivi: far riflettere sul gesto in sé, rendere omaggio e onorare con compostezza, unire nella sincronia del gesto amplificandolo esponenzialmente. Personalmente ho sempre preferito, in occasioni del genere, il silenzio agli slogan. Inoltre, credo che anche chi è estraneo a tutto questo, forse si porrà finalmente qualche domanda».

Cosa vorresti dire a quei ragazzi che si apprestano a ricordare quei giovani caduti? Che valore può avere, oggi, il loro ricordo?
«Onorare chi non c’è più è giusto e doveroso, ma allo stesso tempo saper onorare chi c’è ancora è la vera sfida. Vorrei dire a chi oggi ha l’età che avevano Franco, Francesco e Stefano, di cogliere l’essenza di quel sacrificio come quello di tanti altri in anni in cui l’odio, in molti e da ogni parte, ha prevalso sulla volontà e sulla ragione. “Quei ragazzi” agivano secondo coscienza facendo quotidianamente il loro dovere, fedeli ai loro ideali e allo stile di vita che fece anteporre a molti altri (come loro e più fortunati di loro) l’essere all’esistere, il sacrificio alla comodità, il prezzo da pagare contro un facile compromesso. Il sangue contro l’oro va più vissuto che urlato come purtroppo accade a volte oggi. E di questo “la mia generazione”, e io per primo, è in parte colpevole».

C’è chi parla di una “trappola identitaria”, ovvero ritiene che tali iniziative siano tutte più o meno strumentali, tese ad affermare la titolarità del ricordo a fini di parte. Una tentazione cui è difficile resistere, se solo si pensa a quanto è accaduto con Tremaglia, trasformato in santino dell’antiberlusconismo. Che ne pensi? E in che modo il ricordo può avere, invece, un valore attuale e “vivo”?
«L’identità diventa trappola se chi la propone è un calcolatore o uno che ha pelo sullo stomaco. Anche molti di noi sono stati vittime di chi sapeva infiammare gli animi e sottobanco se ne fotteva altamente di noi: se quello che successe in quegli anni (e in quelli a seguire) a tutta una comunità diventasse un campanello d’allarme per chi oggi corre gli stessi rischi, sarebbe già una splendida vittoria per la nostra generazione. Se l’identità di cui parli invece è vissuta nel quotidiano dando l’esempio, con coerenza e anteponendo i motivi che ho specificato prima a tutto, allora l’identità diventa la cellula necessaria per la comunità. In pratica, meno forma e molta più sostanza. Ogni volta che leggo su Facebook un NOBIS rispondo con un VOBIS: la verifica e il confronto nella sostanza fanno paura a chi sa mostrare solo i muscoli. E i rischi per chi segue quella traccia, sono enormi. Non mi è mai piaciuta la retorica … tantomeno sui morti e non mi riferisco solo a quanto accaduto con Tremaglia, ma anche a Bocca, De Andrè, Moro, Gaber e tanti altri: per me se muore uno in gamba rimane uno in gamba e se muore uno stronzo, uno stronzo di meno. Penso sia ipocrita chi santifica ogni persona “dopo”: mi ricorda il “è morto il re! W il re”».

Flavia Perina ha chiesto che il 7 gennaio diventi “la giornata dei ragazzi che non dovevano morire”, includendo giovani di destra e sinistra morti, peraltro, in contesti del tutto diversi. Che ne pensi di questa proposta?
«Premetto:  di fronte al dolore di morti così violente, nessuno può permettersi di giudicare se un dolore è più grande di un altro. In merito all’articolo di Flavia, sono favorevole a stemperare gli animi e se da entrambe le parti c’è chi urla allo scandalo, c’è anche chi è favorevole. Ciò non toglie che ognuno, singolarmente o in gruppo, può e ha il dovere di ricordare anche “a modo suo” chi ha lottato al suo fianco. La mia perplessità nasce solo su un nome che secondo me non c’entra nulla con quell’esempio, anzi stona: Carlo Giuliani. Giorgiana Masi la sento “mia” come altri che allora morirono in agguati o solo perché professavano il loro sentire in una scuola “avversa” o morirono perché avevano i capelli lungi. Ricordo il tragico splendore dell’intervista doppia fatta dalle Iene alla mamma di Zicchieri e alla mamma di un ragazzo “altro”. Oppure le lettere dei condannati a morte della guerra civile. Ecco: per me quelli sono esempi da trasmettere a chi è venuto dopo di noi perché non commetta gli stessi errori».

Venuto meno l’anticomunismo e la necessità di autodifesa (personale) e delle sedi, cosa rimane dell’identità di destra? È ipocrita pensare di poter ritrovare un minimo comune denominatore?
«A parte qualche “focolaio” di scontro fisico ancora presente, sarebbe auspicabile ritrovare un comun denominatore, ma temo che troppi siano i generali senza esercito e tutti portatori del “verbo” o pronti alla pugna… nel deserto dei Tartari. L’importante è che chi ha ancora la spinta e la voglia di “creare comunità”, non molli ricordando di imparare ad ascoltare chi, non dico è opposto, non è d’accordo con lui».

Qual è la tua opinione sulla crescente criminalizzazione di CasaPound dopo la strage di Firenze compiuta da Casseri?
«Non conosco a fondo CasaPound, ma leggo spesso quello che fanno e l’apprezzo. Per questo invitai sulla mia bacheca di Facebook tutti (ma proprio tutti tutti) ad appoggiarli non appena partita quella campagna denigratoria, infame e sciacallesca contro di loro. Non ne faccio parte, ma considero un dovere dire “ci sono” in un momento come questo e sono perplesso e disgustato da chi, per ragioni che non potrò mai comprendere e per vari opportunismi, non si è stretto intorno a loro».

Sul banco degli imputati Gad Lerner ha trascinato anche Gianfranco De Turris, reo di aver prefato libri di fantascienza di Casseri.
«Gad Lerner è uno di quelli che mi costringe quotidianamente a resistere alla tentazione di comprare una camicia nera (che non ho mai avuto): sa benissimo chi era e chi è Gianfranco De Turris, ma vergognosamente e con sadismo l’ha messo alla pari di un pazzo folle omicida. Lo stesso schifo l’ho provato leggendo la campagna di stampa infamante contro Franco Cardini. Per questo, qualsiasi cosa venga proposta per difenderli pubblicamente, mi vedrà sempre presente e solidale. Devo dire anche che mi sono imbarazzato ancora di più (proprio per la provenienza e la vecchia militanza comune) da quanto detto da Fabio Granata nella trasmissione di Lucia Annunziata (altra gadlerneriana) mentre quella giornalista (sic!) tentava di massacrare Gianluca Iannone interrompendolo e insinuando l’inverosimile: sentire da Fabio che la ringraziava per la correttezza della trasmissione è stato da voltastomaco».

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