ApostrofoRosa. “Cinquanta sfumature” e il pubblico sedotto da stereotipi Usa

50_sfumature_grigio_1_kikaQuesto articolo deve necessariamente iniziare con un mea culpa. Ebbene sì, rientro fra quelli che sono andati a vedersi le 50 sfumature. E ci sono andata, consapevolmente, volontariamente. Perché sono fermamente convinta che per parlare di qualcosa, per giudicarla e infine anche criticarla, ci sia sempre un presupposto fondamentale che è conoscerla. Perciò diffido tanto di quelli che si sono strappati i capelli, riscoprendosi improvvisamente neofiti del mondo del sadomaso pur avendo sino all’altro ieri scambiato il gatto a nove code per un animale mitologico, quanto diffido allo stesso modo di tutti quelli che a priori si considerano superiori a questo genere di cose, perché costoro, invece, appartengono all’altrettanto nefasta categoria di quelli che si sono riscoperti tutti sapienti critici cinematografici della miglior specie, manco fossero commentatori ed esperti d’eccezione dei maestri dello sperimentalismo post realista sovietico. Suvvia, parliamoci chiaro. Che non stiamo parlando di un capolavoro d’autore, era ben chiaro anche a chi l’ha girato e diretto e prodotto, ma d’altro canto non è neppure detto che avesse questa pretesa. Anzi, vi dirò di più: a nessuno è mai venuto in mente che la mediocrità di questo fenomeno del grande schermo, a sua volta tratto da un bestseller che complessivamente deve aver venduto forse più copie mondiali in un anno che la Divina Commedia fra i banchi di scuola, probabilmente sia la stessa ragion d’essere del suo successo? Mi spiego meglio.

 Io ci ho messo un po’, a capire come esprimere il mio giudizio. La tentazione di cedere allo snobismo culturale era forte, sono sincera, anche per me: avrei potuto uscirmene con quelle frasi di inaudita banalità che fanno tanto la fortuna dei commentatori del ciberspazio – vedi sopra –, del tipo: “Per carità, ma questo non è neppure degno di essere considerato un film”.

Poi, alla fine, l’ispirazione l’ho avuta in questi giorni, quando nelle sale è in scena il remake di Cinderella. Ebbene, nel rimbalzo generale di post sui social network, tutti intenti a instagrammare baci e carrozze e geolocalizzarsi nella sala cinematografica con mood infanzia – indiscriminatamente dai 10 ai 47 anni – ho avuto l’illuminazione. E ho compreso molte cose. Tipo che le fan sfegatate del remake della favola Disney erano le stesse di qualche settimana prima, passate con disinvoltura imbarazzante dall’auspicio di capitare fra manette e frustino nelle mani di un Christian Grey a taggare indifferentemente il proprio partner su una foto del principe azzurro della favola Disney.

Ebbene, tutto questo dimostra un’unica, semplice verità. Il problema non sono le pellicole: il problema è il pubblico. Checché ne pensino i democratici dell’egalitarismo del pensiero di massa, no, non siamo e non possiamo esser tutti appassionati di Ejzenstejn, Petrov, Ford, Welles, Rossellini, Kubrik o Fellini: sarebbe il mondo perfetto, e diciamocelo pure, è evidente che non sia così. Ebbene, nell’industria culturale moderna, multiforme ed eclettica e inevitabilmente piegata alle leggi supreme del mercato, c’è spazio per molte cose. E non è detto che sia sbagliato, è semplicemente la realtà, e va accettata così. Con la consapevolezza, comunque, che il libero arbitrio è l’arma più potente contro il pensiero di massa e per cui poi, alla fine, quei dieci euro in media di biglietto che hanno rimpinguato le casse hollywoodiane e grazie a cui ci siamo tutti guadagnati un bel sequel di 50 sfumature – con annessi psicodrammi esistenziali delle platee femminili, affrante dalla sostituzione dell’attore protagonista – avremmo potuto  risparmiarceli, magari devolvendoli ad un abbonamento a una cineteca d’autore. Se così non è, allora, una qualche ragione deve pur esserci. E non è necessario andare lontano per cercarla. Perché, non dimentichiamoci che qui, nella modesta e ridimensionata fabbrica del cinema italiano, film modesti hanno riscosso complessivamente un’intera generazione di proseliti di ragazzine che, magari non sa che “domani è un altro giorno” non è una frase da diario delle superiori, ma le battute di Tre Metri Sopra il Cielo le conosce a perfezione, il cuore con le ali sul pube se lo sarebbe fatto tatuare – e forse lo ha fatto – anche a suon di schiaffi dei genitori e ha vissuto decisi momenti di crisi esistenziale quando ha dovuto realizzare che non tutti i motociclisti suburbani sono così sexy e dannati: nella migliore delle ipotesi ti guardano il culo alla pompa di benzina o ti invitano a mangiare un hamburger, mica ti piazzano lo striscione con dedica sul cavalcavia.

Solo che, se Moccia è in fin dei conti un tormentone fine a se stesso, c’è da scommettersi che le 50 sfumature faranno parlare ancora per molto, molto tempo, e occorre mettersi comodi ed accettarlo, senza crisi di snobismo. Perché la verità, è che tutto questo – l’insieme di stereotipi mediocri e banali che chiamiamo il cinema moderno – semplicemente, gli Americani sanno farlo meglio, come gran parte delle cose. Riescono a farti credere con estrema facilità che tu, studentessa in lettere, per puro caso ti ritrovi catapultata a scrivere un articolo così per hobby scavallando un’intera generazione di freelance disoccupati e no, mica alla sagra del cardoncello di quartiere, ti mandano, bensì a intervistare il più sexy magnate di Seattle. E poi riescono a farti trovare verosimile, quasi possibile che il suddetto proprietario dell’impero economico possa piombarti fuori del negozio di ferramenta, mentre sei in tenuta da lavoro, e prelevarti con un jet privato una sera o l’altra. Per non parlare delle scene cult perché, qui lo sottoscrivo, al posto della Venus o della Epilzero io una querela per danni gliel’avrei fatta, a questo film e alla sua produzione: ma sul serio pensavano di farci convincere che una donna, alla veneranda età dei 20 passati, possa risultare attraente con una coperta di peli sulle gambe, roba che manco negli anni quaranta Frida Khalo?

Ora, io potrei continuare all’infinito, infierendo sui contenuti, sui dialoghi e sulla sceneggiatura di una pellicola che a tratti mi è parsa, molto onestamente, travalicare i limiti dell’ilarità, somigliando molto a una parodia di se stessa. Ma, l’ho detto e lo ripeto: la dura verità è che non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace. E dinanzi agli incassi esorbitanti riscossi al botteghino in appena un giorno, bisogna arrendersi all’evidenza che le 50 sfumature, nella loro pur eclatante sequela di surrealismo grottesco, piacciono. Io, dal canto mio, mi riservo comunque una piccola consolazione: un baluardo segreto di speranza mai sopita che per dieci donne aspiranti fustigate e inchiodate e ammanettate e “guinzagliate” ce ne sia, da qualche parte, almeno una seduta ad aspettare un Paul Varjak che dica loro: “Non voglio metterti in gabbia, io voglio amarti”. Magari, così puntuale da aspettare la pioggia scrosciante per baciarle appassionatamente giù per la strada, fuori di un taxi giallo. Ma, questa, è un’altra storia.

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Silvia Cocuzza

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