Cinema. “L’amore bugiardo” noir senza verità (conta solo apparenza)

gone girl“Non tutto è ciò che sembra”, potrebbe essere il riassunto di ogni buon thriller; ma con il “Gone girl – L’amore bugiardo” dello spietatissimo David Fincher, siamo un passo oltre: ciò che sembra diventa ciò che è per il solo fatto di sembrarlo.

Un marito amorevole però traditore, una moglie-vittima però carnefice (e che carnefice): i due, uniti solo dall’odio, diventano gli sposini d’America. Un racconto magistrale che, nella Hollywood ultraripetitiva e buonista di oggi, ha il coraggio di essere gelido e quasi anti-commerciale raccontando un giallo che si fa noir e al termine del quale non c’è una verità o una rivelazione, ma solo la terribile, rassicurante, apparenza.

Non è infatti solo la storia di un amore, né solo la cronaca di un’indagine: è invece un saggio di estetica intesa come filosofia della sensazione, un’analisi crudele e a tratti ironica dell’homo videns. Il Re è nudo, tutti lo vedono: ma il bambino stavolta urla che è vestito e giù applausi di sollievo.

Nessuno, in questo film, riesce a dire la verità, neppure quelli che la conoscono o la intuiscono.

Tutti mentono e sono costretti a farlo perché essere sinceri li condannerebbe come miseri e meschini: l’apparenza non è più solo una recita, un velo calato davanti alla realtà per dissimularla, ma è lo strumento usato per tramutare la verità e influenzare le azioni altrui.

Il confronto esce bene per contrasto con un film dello scorso millennio come “American Beauty”: sempre provincia U.S.A., sempre ipocrisia, sempre famiglia disfunzionale. Nel capolavoro di Sam Mendes il dramma è corale, ma privato; il padre, la madre, la figlia, il vicino mentono per tollerare sé stessi e la propria vita consumistica. Sono tutti “chiusi dentro” le proprie menzogne e la propria piccola realtà: American Beauty è l’urlo di fine secolo della piccola borghesia americana ultra-democratica sull’orlo del baratro, corrosa all’interno dal politicamente corretto e incapace di reagirgli perché ostaggio del proprio auto-giudizio e della propria autocensura.

Nel film di Fincher invece il dramma è pubblico, terribilmente pubblico, prima ancora che arrivino le televisioni; il marito accusato di omicidio è letteralmente “chiuso fuori” dai pensieri della moglie come pure da casa sua e la sorella, i genitori della moglie, la vicina, la polizia, sono tutti elementi estranei ed esterni che guardano dentro, giudicano, vandalizzano. Il parere degli altri è sempre presente ed è anzi il vero burattinaio, i protagonisti non hanno scelta, dall’inizio alla fine sono sempre gli altri a indicare la via che loro poi si sentiranno costretti a percorrere: è il pubblico a dare il giudizio e a censurare.

Più che postmoderna, Gone Girl è una storia d’amore quantistica, vale a dire che è l’occhio di chi guarda a determinare e forzare le qualità dell’oggetto osservato. La verità è in mano alla massa post-democratica, quel popolo incapace di interessarsi ai grandi temi, ma sempre affamato di scandali da parrucchiera; una folla senza volto che si agita e muggisce come la marea, guidata dalla Barbara D’Urso statunitense o dal Taormina afroamericano, che guarda dove gli viene detto di guardare e accusa con inverosimile superficialità le vite degli altri.

Si semplifica, si riassume, si esagera, tutto è artefatto; lo spettacolo del mostro è servito sul palco, però a distanza, perché siano di là il male, la malattia, l’assassino, di qua il bene, la cura, l’innocente: ma noi che osserviamo siamo complici e mandanti, questo è il messaggio travolgente da leggere in Gone Girl.

Tutto ciò che accade in scena, le scelte del marito e della moglie sono fatte pensando a noi, il pubblico anonimo che guarda e giudica. Noi decideremo chi è colpevole e chi è innocente, o meglio ancora noi decideremo chi è normale e chi è invece l’anomalia da bruciare sul rogo.

Usciremo dal multisala, cammineremo fino alla macchina digerendo i popcorn e torneremo a casa pensando che non ci riguardi. Riprecipiteremo così nella calma piatta di un’apparenza rassicurante, nel rumore di sottofondo dei talk show, in quel grande chiacchiericcio tritatutto che serve a nascondere le grandi evidenze: che la malvagità esiste e che può emergere da ciascuno di noi, che la sincerità è sempre in bilico tra mille bugie e che l’uomo rimane fondamentalmente una creatura estremamente debole.

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Andrea Tremaglia

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