Lo Stato norvegese si accanì contro Hamsun ben oltre ogni plausibile ragione, posto che lo scrittore non aveva fatto torto ad alcuno, non si era macchiato di nessun crimine, non aveva svolto il ruolo di delatore, niente aveva saputo dei campi di sterminio. Per di più aveva quasi novant’anni. Che cosa si voleva dimostrare perseguendolo, sordo e quasi cieco oltretutto? Che le vittime sanno essere anche aguzzini? Ma vittime di chi, poi? Non certo di Hamsun che si adoperò – è vero – presso gli esponenti del governo-fantoccio di Quisling e direttamente interpellando le autorità naziste per tentare di sollevare le sorti di tanti bisognosi e contribuire ad assicurare un posto nel dopoguerra al suo Paese. Per quanto risibile possa essere stato ritenuto lo sforzo dello scrittore, la sua detenzione e la condanna che la sanzionò nel 1948, il giorno di san Giovanni, furono ed appaiono tutt’oggi oscene.
Hamsun fece bene a mettere in chiaro nel suo ultimo libro come stavano le cose; un libro di frammenti, memorie, suggestioni, difensivo e mai offensivo che va letto come da pochi venne letto a dieci anni dalla scomparsa dello scrittore, nel 1962, quando apparve in Italia edito dal Borghese con il titolo “Io, traditore” senza suscitare particolare interesse.
Oggi è diverso. “Per i sentieri dove cresce l’erba” (nuovo titolo, nuova traduzione) non può che essere accolto come l’esame di coscienza di uno scrittore che non cerca giustificazioni, ma reclama soltanto il diritto ad essere giudicato per le sue idee che, in ogni caso, non prefigurando delitti, non potevano essere messe alla sbarra. È perciò un libro che ci interroga sulla libertà di pensiero e sulle dimensioni dell’intolleranza esercitata soprattutto contro gli intellettuali. Quando la Cassazione emise la sentenza, Hamsun finì di scrivere. Dopo quattro anni di silenzio, morì.
*”Per i sentieri dove cresce l’erba” di Knut Hamsun, Fazi editore