Politica. Fdi sul Jobs act dimentica le origini sociali del movimento

lavoroCaro Massimo Corsaro,

affermi che al di là della posizione politica di opposizione al Governo Renzi, che impone un “No secco” alla fiducia eventualmente posto sulla legge delega sul lavoro che ora è pervenuto alla Camera (atto n. 2660), affermi che nel merito vi sono “cose di buon senso” includendo al primo posto “la diminuzione della rigidità del mercato del lavoro, introduzione del contratto unico a tutele crescenti, abolizione dell’obbligo di reintegro nel caso di crisi aziendali e grave recessione economica; possibilità di modificare le mansioni del lavoratore”.

Permettimi quindi, in base alla mia esperienza professionale specifica nel campo del diritto del lavoro (che è alquanto diversa dalla tua, di dottore commercialista) di precisarti che queste cosiddette “cose di buon senso” non sono tali, e comunque sono inutili per risolvere il gravissimo problema occupazionale.

Comincio dal primo punto, che è poi la base di tutto il resto. Nel cosiddetto “mercato del lavoro”, termine che una persona di destra non dovrebbe mai usare, non c’è affatto “rigidità” ma anzi amplissima libertà a seguito delle numerose tipologie di contratti sempre meno “sinallagmatici” (cioè, a parità di controprestazioni) che lasciano ogni libertà di agire al datore di lavoro. Fra l’altro, basti pensare che la media di occupati nelle imprese italiane è di nove dipendenti, per comprendere come ci sia una flessibilità pressoché totale: questo ovviamente per il rapporto di lavoro privato, di cui si occupa la legge delega, non per quello pubblico che teoricamente dovrebbe essere simile ma che in realtà è, esso sì, rigido, anzi rigidissimo!

L’introduzione del contratto unico a tutele crescenti potrebbe essere accettabile a condizioni che si elimini del tutto il contratto a tempo determinato, reso privo di motivazioni dal decreto Poletti. Infatti, sommando i tre anni del contratto a tempo determinato agli altri tre “a tutele crescenti”, quindi con possibilità di risoluzione in qualsiasi momento, avremmo la bellezza di sei anni privi di certezze! Diciamolo ai giovani, queste cose, affinché sappiano cosa si sta preparando per loro.

L’abolizione dell’obbligo di reintegro nel caso di crisi aziendali e grave recessione economica già c’è. Lo prevede la legge n. 223 del 1991 che ha regolamentato i licenziamenti collettivi per presunte ragioni economiche: dico “presunte” perché in alcuni casi il licenziamento collettivo o la chiusura di imprese avviene anche in assenza di reali ragioni economiche, ma solo per effetto di strategie industriali, decise fuori dall’Italia, che vogliono eliminare una succursale. Stùdiati, per favore, a titolo d’esempio il caso delle “Acciaierie Speciali di Terni” dalla sua privatizzazione ai giorni attuali.

Infine, la possibilità di modificare le mansioni del lavoratore: è un problema minore, perché sono già ammessi i trasferimenti da un settore ad un altro secondo le necessità produttive. Certo, la legge prevede che si debba mantenere la retribuzione percepita: è allora forse questo che si vuole, la diminuzione della retribuzione, magari per un capriccio del datore di lavoro non sufficientemente motivato? E’ ammissibile questo?

Infine, fai un riferimento alla nota vicenda dell’art. 18. E’ veramente stucchevole ribadire che un contratto di lavoro a tempo indeterminato non si possa sciogliere unilateralmente ed a piacimento senza che ci sia una giustificazione o di tipo disciplinare o di tipo produttivo: ricordo che parliamo sempre di licenziamenti individuali. Secondo voi, una persona non ha il diritto di difendersi e chiedere ragione di un provvedimento così drastico come il licenziamento? Ed a chi lo chiede, se non al giudice (peraltro dopo aver esperito un tentativo obbligatorio di conciliazione, come prevede la legge Fornero n. 92 del 2012)? Si dice: ma spesso (non sempre!) il giudice dà ragione anche ai ladri od ai violenti. I giudici, quindi: ma non sono gli stessi che emettono sentenze errate e tengono in carcere gli innocenti? Il problema quindi è dei giudici, non dei singoli lavoratori: estendiamo le procedure di conciliazione, con soggetti esterni competentied imparziali per giudicare i fatti, e avremo giudizi rapidi ed obiettivi.

Ma il punto fondamentale è un altro.

Se il lavoro in Italia manca, se i datori di lavoro hanno problemi economici con i lavoratori, la questione non si risolve a danno di una parte comunque debole quale il lavoratore ma intervenendo sui costi del lavoro, riducendo imposte a cominciare dall’Irap e contributi, accentuandone la fiscalizzazione. Ad esempio, pochi sanno che le tariffe Inailper gli infortuni sul lavoro sono sproporzionate rispetto ai costi, e che nel tempo quell’Istituto – che peraltro funziona benissimo – ha accumulato ben 21 miliardi di euro di avanzo. Tutti, sindacati e datori di lavoro, hanno chiesto la restituzione ai contribuenti, ossia alle imprese: ma cosa hanno risposto i ministri dell’economia, da Tremonti a Padoan? Che quegli avanzi devono confluire nel conto di tesoreria dello Stato, a tasso d’interessi zero. Restituiamoli alle imprese, magari diversificando gli incentivi allo sviluppo, ed avremo magari un piccolo incremento dell’occupazione.

Poi, non dimentichiamo che dopo l’adesione all’Unione Europea prima ed all’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) poi, le imprese italiane sono in balia della concorrenza internazionale ad opera di Paesi che o non hanno regole sul lavoro (come pure sull’ambiente e la salute) o agiscono apertamente in regime di “dumping”. Penso alla Cina edall’India, ma anche a Paesi come la Romania, la Polonia, l’Albania. Come può un’impresa italiana “reggere” dinanzi a Paesi che non hanno alcun obbligo contributivo e retributivo? Come può un’impresa sostenere la sua attività dinanzi all’abusivismo commerciale privo di regole ed evasore al 100%? Hai voglia a ridurre “rigidità”, a favorire licenziamenti: non ce la farai mai!

A ciò va aggiunta un’altra considerazione. Oggi il costo del lavoro, per effetto della robotizzazione e dell’informatica, assume un’incidenza minore sul prodotto finito: quindi, interventi anche radicali sulle norme sul lavoro possono ridurre di due punti percentuali al massimo la sua incidenza sul prodotto finale. Non pensate che questa stessa percentuale, che comunque provocherebbe traumi sociali, possa essere assorbita intervenendo, ad esempio, sui costi dell’energia e dei trasporti, oltre che sul prelievo fiscale?

Insomma, le problematiche sono complesse e non si può risolvere tutto semplicisticamente come mostra (ma non farà) Matteo Renzi. Però il problema posto da Corsaro, a mio parere, riguarda un altro aspetto, l’attenzione che il suo partito “Fratelli d’Italia” deve riservare al mondo del lavoro e della produzione. Non basta dire che i giovani sono sfruttati e precarizzati, bisogna analizzare le cause e tanti aspetti deficitari, a cominciare dall’istruzione, dall’orientamento professionale e dalla formazione continua. Bisogna battersi per difendere le nostre produzioni dalle concorrenze sleali internazionali, dalle contraffazioni e dall’abusivismo. Bisogna fare un “piano industriale” nazionale per dare all’Italia una “mission” (come oggi si usa dire) nel mondo globalizzato contemporaneo. E bisogna tutelare i lavoratori dipendenti, tutti, che sono poi la maggioranza del popolo italiano e non possono essere trattati come “merce” da vendersi al “mercato” del lavoro.

Visto che Corsaro richiama i “valori” del centro-destra, io lo richiamerei piuttosto a valori che anch’egli condivideva, quelli di un “movimento sociale” il quale, con Almirante, Rauti e Valensise, mostrava attenzione e rispetto per il mondo del lavoro italiano.

@barbadilloit

 

Nazzareno Mollicone

Nazzareno Mollicone su Barbadillo.it

Exit mobile version