L’autore de Le Uova del Drago anche stavolta «c’ha n’setta». E doppiamente. Il dialetto – come sa perfettamente Tullio De Mauro – arricchisce l’italiano. Nel caso del pamphlet di B-fuoco, c’è una spezia del tutto endogena che gratifica in bassezza. Se la “p” di puttana – è vero – già evoca il fragore dello sputo e dell’indignazione; ci voleva ben altra sonorità per tradurre lo sconcerto, il voltastomaco, il vomito. Già, solo chi è siciliano, solo chi crede nella possibilità che l’Isola possa – se non cambiare – almeno migliorare, ha in cuore tanta desolazione. Resa ancor più patologica, dall’ascesa al governo della Regione di Rosario Crocetta.
C’è poi il Pd siciliano. Partito, che a differenza del Megafono, parla addirittura troppo. A fiume e con accento romano. Rissoso sempre e comunque. Dentro e fuori il Palazzo. All’opposizione di un governo di cui è partner principale. Partito ancora – e non dimentichiamolo – che è casa madre anche di Rosario Crocetta. Il quale vive con un piede in due scarpe. E dice bene B-fuoco quando fa presente un po’ a tutti che Matteo Renzi prova un certo imbarazzo a farsi riprendere al suo fianco. La prova postuma? Durante la visita estiva proprio a Gela, la patria del governatore, il premier ha evitato ogni tipo di incontro con la stampa. Ha parlato soltanto in consiglio comunale. Un monologo nordcoreano. Crocetta gli era vicino, ma non accanto. Di più non si poteva fare. All’interno di un quadro frastagliato, resta pur tuttavia il protocollo a far galleggiare una nave prossima ad affondare.
Crocetta ha però un alleato. Forse l’unico: i guardiani dell’industria (quale?) siciliana. Il mantra comune è il contrasto alla mafia. Tutto giusto, direte. Certo. Ma qui si tira di fioretto. I siciliani lo sanno bene e B-fuoco ce lo ricorda senza posa citando il grande Leonardo Sciascia, «due sono i tipi di mafia: La Mafia e la Mafia dell’Antimafia». Una dialettica asfissiante e assai retorica. Un aut-aut che in un modo e nell’altro crea conventicole e scomuniche taglienti quanto l’ipocrisia. Peccato però che la maggioranza dei siciliani ha sul grugno entrambe le cordate. Come fossero le gambe di un pantalone cucito sulle stoffe dell’emergenza perenne.
Quale soluzione allora per la Sicilia? Commissariarla. Ecco la ricetta di B-fuoco. Una provocazione, ma non per forza di cose infondata. Ragioniamoci sopra: Crocetta cancella, primo in Italia, le Province partorendo le tre Aree metropolitane di Catania, Messina e Palermo, e i Liberi consorzi. Lo fa in forza dello statuto autonomo. Peccato che quella grande riforma sia divenuta, andando avanti, un vero e proprio pantano istituzionale, per non dire un Vietnam. Intanto Graziano Del Rio ha varato una “riformina” sempre delle provincie per tutto il territorio nazionale.
Già, le Province. Resistono nonostante i pentastellati, ma senza il voto popolare. Altro che spending review: qui si fa la democrazia al ribasso. Ad ogni modo, in tutta Italia gli enti locali cambiano forma. In Sicilia, invece, la macchina s’inceppa. Primi a partire, ma ultimi ad arrivare. In nome sempre dell’autonomia e della gestione tutta televisiva dell’agenda politica. Serve ancora lo Statuto? Chiederselo non è una “minchiata”. Come non lo è neanche invocare una soluzione choc al limite del costituzionale. Che però – le vendite in libreria ce lo dicono già – in molti si aspettano con quell’ acquolina in bocca figlia della fame di normalità.
*“Buttanissima Sicilia. Dall’autonomia a Crocetta, tutta una rovina” di Pietrangelo Buttafuoco (pp. 206, euro 12, Bompiani).
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