Libri. L’Italia vista da Alberto Arbasino in novantatré “Ritratti italiani”

Alberto Arbasino, Ritratti italianiArtista eclettico e decisamente controcorrente, Alberto Arbasino è ritornato in libreria con una raccolta di ritratti di personalità illustri della cultura, dello spettacolo e della politica italiani. Scrittore à la page ma dal piglio snob e aristocratico, in costante assalto a ogni provincialismo piccolo-borghese; sebbene sia una delle firme di punta del giornale più progressista ma anche più politicamente corretto del panorama italiano dei rotocalchi («la Repubblica»), è invero – come è stato definito anni addietro su «Il Foglio» – un «modernista conservatore». Amante del “bello” e del buon senso Arbasino non disdegna la provocazione, all’insegna di un cinismo pungente e di un spregiudicatezza intellettuale.

Dalla A di Gianni Agnelli alla Z di Federico Zeri, nei Ritratti italiani (Adelphi) lo scrittore di Fratelli d’Italia e di Anonimo lombardo accompagna il lettore tra le pagine di un vasto album di ricordi e di aneddoti, di conversazioni e di interviste, e perché no di semplici chiacchiere da bar, con illustri contemporanei quali Luciano Anceschi, Carlo Bo, Emilio Cecchi, Mario Praz, Giovanni Comisso, Giorgio De Chirico, Ennio Flaiano, Alberto Savinio, Alberto Moravia, Aldo Moro, Sandro Pertini…E notevolissimi coetanei, o quasi – da Calvino e Testori e Pasolini, a Parise e Manganelli e Berio –, «coi quali ci si ripromettevano lunghe polemiche anziane davanti a un bel camino acceso, con vino rosso e castagne e magari cognac. Invece, la storia girò diversamente. E così, oltre ad alcuni coetanei vitali e viventi, eccoci qui con care e bizzarre memorie evidentemente prenatali: Dossi, Tessa, Puccini, D’Annunzio, e la mia concittadina vogherese Carolina Invernizio, nonna o bisnonna di mezza Italia letteraria».

Al di là di ogni militanza politica – nonostante una breve parentesi da indipendente nel piccolo Partito Repubblicano -, nei Ritratti, tra memorie e ricordi, stampe bozzettistiche e virtuosismi stilistici, coglie l’occasione per tirare le somme anche sulla politica contemporanea: «E appare sempre più ridicolo, dopo tanti trasformismi, voltafaccia, arlecchinate, defezioni, apostasie… prendere sul serio le distinzioni fra Destra e Centro e Sinistra».

Assai critico nei confronti di ogni forma di militanza engagé, cui addita il tramonto del buon gusto e della categoria del “bello”, Arbasino si sofferma en passant ad analizzare lo stato dell’opera d’arte in una società come quella attuale, dove imperano le leggi dell’utile e del commercio, rilevando, specie in ambito letterario, una certa renitenza al «bello»:
«[…] la parola «bello» dà sempre più fastidio, come un ingombro… perché alla Letteratura – e solo a lei, poveraccia – si addossano secondi fini politici, propagandistici, e assistenziali in tante situazioni specifiche, piuttosto giornalistiche. […] Con effetti vantaggiosi per il riverito autore engagé. Ma con esiti pratici (per le Nobili Cause) derisori come quelle pitture o sculture o sonate con titoli fortemente impegnati per la causa di quel giorno lì.».

Nondimeno, la sua penna caustica ma chic non è esente da attacchi dissacranti a taluni mammasantissima della cultura nostrana, come il regista Michelangelo Antonioni («prodotto della Stagione dell’Alienazione»), e a particolari dogmi modernisti di una certa cultura politically correct e “prog-terzomondista” che scardina con la sua verve snobistica e col suo cicaleggio enumerativo (ugualitarismo, società multietnica – secondo Arbasino, fondata, come scrisse anni fa su «integrazioni forzose e delittuose» -, perbenismo politically correct, umanitarismo esasperato e così via…). Insomma, un intellettuale disinvolto e spregiudicato; tra i maggiori interpreti della vita sociale italiana dal boom economico sino ad oggi; osservatore attento di Prima, Seconda, Terza Repubblica e camaleontismi vari sino alle ultime generazioni a “vita bassa” – come ebbe a definirle nel pamphlet appunto intitolato La vita bassa (catalizzando l’attenzione di intellettuali attenti come Stenio Solinas che ne scrisse sulle colonne de «Il Giornale») -, segnate dal consumismo e da una cultura sempre più liquida e pop.

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Giuseppe Balducci

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