Leonora (di M. Cabona). “La grande bellezza” ovvero un Oscar al declino italiano

grande bellezzaChi ha visto La grande bellezza di Paolo Sorrentino al cinema, si è schierato pro o contro. Chi l’ha visto cominciare in tv raramente l’ha visto finire. Gli hanno nuociuto interruzioni pubblicitarie e scene sforbiciate? Certo che riconoscersi in un film, e in un film così raffinato, capita a pochi I pochi, poi, si sono ulteriormente radicalizzati in senso ideologico, oltre che estetico. E si è aperto il dibattito. Se parole in libertà erano corse per giorni dopo il festival di Cannes 2013, dopo l’Oscar 2014 è il delirio che ha imperversato. Morale? Meno con le categorie “destra” e “sinistra” si spiega la realtà, più con esse si catalogano idee e stili di vita. Figurarsi con La grande bellezza, dove l’élite romana è vista col disincanto di un letterato napoletano, al servizio di un periodico di sinistra. Una sinistra elitaria, come quella de “L’Espresso”, che nel 1955 nacque a destra, ereditando la redazione di “Cronache”, il settimanale fondato e diretto da Gualtiero Jacopetti. E c’è un po’ di Jacopetti in Jep (Toni Servillo), come c’è un po’ di Gioacchino del Balzo e un po’ di Raffaele La Capria, esponenti della Napoli aristocratica e della Napoli borghese prestate alla carta stampata romana. Ammesso che ci sia qualcosa a destra (non “di” destra) ne La grande bellezza (meno di quanta ce ne sia nel catalogo Adelphi), ciò non deriva dal passo del Viaggio al termine della notte di Céline in ex ergo al film. Deriva invece dal temperamento di solitario che soffre di solitudine del personaggio di Servillo. Sì, quando è costretto alla franchezza, Jep “rivela” all’amica romanziera e sceneggiatrice (Galatea Ranzi, brava e bella) che, all’università di Roma, nel ‘68, era apprezzata per estrema disponibilità fisica più che per estremo impegno politico. Sì, Jep aggiunge anche che, dopo, lei ha pubblicato romanzi solo perché “amante del capo del partito” (Pci, Pds, Ds o Pd? Decidete voi…). Ma non lo fa per cattiveria o antipatia. Lo fa per strappare il velo di ipocrisia di chi, attorno a lei, finge di non saperlo. Infatti è alla stessa signora che Jep rivolgerà poi parole d’amore, accolte da lei con lusinga. Anche in una gioventù sessantottarda spesso opportunista (Pasolini la disprezzava) c’è stata infatti bellezza: alle manifestazioni contro la guerra del Vietnam, le adolescenti in kilt, con relativo spillone, così sensibili ai passi e alle folate di vento, lasciavano sapientemente intravvedere la parte alta dei collant bianchi arabescati, inducendo fantasie che i decenni non hanno cancellato.

Il dibattito-fiume su La grande bellezza ha ossessivamente proposto anche un paragone che si è spinto ancora più indietro di un altro decennio. Per aver raccontato l’élite della Roma del boom nella La dolce vita, all’anteprima milanese del film Federico Fellini – nel febbraio 1960 – fu preso a sputi. La grossa borghesia dei dané, ancora intrisa di un calvinismo bancario, se non religioso, vedeva nel regista riminese il connivente o addirittura il complice dell’edonismo romano. Infatti allora il vizio doveva pagar prezzo alla virtù: con l’ipocrisia. Rappresentando i ricchi di Milano, tanto il ferrarese Michelangelo Antonioni quanto il milanese Alberto Lattuada li criticavano, come se i poveri fossero immuni da tentazioni, invece che incapaci di soddisfarle. Perché questa sperequazione tra Roma eMilano? – si chiedeva il parvenu post-bellico giunto a indossare il suo primo cappotto di cammello… Ci volle Giuseppe Siri – entrato papa nel conclave del 1958 e uscitone cardinale – a garantire che La dolce vita non fosse apologia, ma solo radiografia, che mostrasse insomma per pura necessità che le miserie della capitale erano connesse con le sue grandezze. Era quel tanto che bastava per far placaremoralismi comuni a cattolici e a marxisti. Un’opera d’arte ambigua stuzzica. La Gioconda di Leonardo sorride in quel modo perché pensa a come ha tradito il marito o perché ne ricorda le attenzioni? Ognimoglie sa che la verità è la prima; ogni marito spera che la verità sia la seconda. Con un film, opera d’arte collettiva di infinite immagini, non di una, l’ambiguità si moltiplica, anche se Sorrentino offre subito le coordinate per salire sul suo ottovolante di emozioni: dalle prime, solari inquadrature, sovrastate da un coro celestiale, fino alla notte di note, con voce cantante di Raffaella Carrà. I dialoghi sono elemento di contrasto per accentuare, contro l’ordinarietà delle persone, la grande bellezza del posto. È proprio la grande bellezza di Roma che stronca il turista nipponico per il contrasto con la grande bruttezza di Tokyo alla quale era abituato. Poi appare il protagonista, nato irrimediabilmente sensibile e cresciuto necessariamente scettico. Nei pensieri di auto-presentazione, il nostro evoca il culto della “fessa” tra i coetanei di gioventù, quando lui già adorava “l’odore delle case dei vecchi”. Ora anche lui è un vecchio e può amare l’odore di casa propria, che emana da pareti tappezzate di libri.

Sorrentino è un quarantenne e ha concepito La grande bellezza sui trent’anni. Non ha scelto come alter ego un attore più giovane di lui, come era – nella parte di giornalista del settimanale “Lo Specchio” – Marcello Mastroianni rispetto a Fellini. Non solo ne ha scelto uno più vecchio di lui, ma l’ha invecchiato ancora (Jep è sessantacinquenne, mentre Servillo è cinquantacinquenne). La prospettiva de La grande bellezza è dunque opposta a quella de La dolce vita. Se poi vi chiedete perché Sorrentino – dopo L’uomo in più, Le conseguenze dell’amore e L’amico di famiglia, così originali – abbia ripreso pari pari non solo le feste cafonal del suo Il divo,ma anche la struttura de La dolce vita, e appare un epigono di Fellini, è perché un film costoso deve evocare un paragone mitico per esser finanziato, di questi tempi. Alla Medusa hanno capito e rischiato: onore a loro.

*L’articolo di Maurizio Cabona è stato pubblicato sul primo numero della rivista di dibattito politico economico culturale “Leonora”. Per abbonarsi alla pubblicazione: 30 euro da versare sul c/c postale 1000958312 , intestato a Edizioni Giuseppe Laterza – Bari (causale: abbonamento a “Leonora”).

Maurizio Cabona

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