L’intervista. L’esule istriana Maria Dusman racconta l’esodo come difesa dell’italianità

10 Febbraio Giorno del Ricordo FoibeCATANIA – “Basta oblio”. Ma anche: “Ci vuole equanimità nel ricostruire la storia di quanti vissero la tragedia della guerra, delle foibe, dell’esodo”. L’invito è del presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano. Parole pronunciate in occasione del commemorazioni ufficiali della “Giornata del ricordo” del 2011, in concomitanza con il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. L’incrocio tra le due ricorrenze non è affatto casuale: nelle intenzioni del Capo dello Stato l’affondo proposto va in una direzione ben precisa: favorire in ogni modo una memoria quanto più condivisa possibile di quei tragici eventi. E non solo: l’augurio di Napolitiano è di superare quegli odii e quegli steccati ideologici che hanno lacerato il Paese per interi decenni. Oggi la Repubblica riconosce quanto avvenne agli italiani di Istria, Fiume e Dalmazia tra il 1943 e il 1947. Ma per quasi cinquant’anni la morte nelle foibe di 10-12.000, ma anche il dramma di 350.000 italiani che furono costretti ad abbandonare quelle terre, è rimasto un tabù. Dal 2004 una legge dello Stato ha istituto il dieci febbraio come data per ricordare quella vicenda spaventosa.

LiveSiciliaCatania ha voluto dare un contributo alla fondazione di questa “memoria collettiva” raccogliendo la testimonianza di una donna che ha vissuto sulla sua persona le vicende dell’esodo.

Maria Dusman

Maria Dusman è nata a Pola. Dal 1947 vive a Pedara, comune del versante sud dell’Etna, con la sorella Michelina. Oggi è una nonna in pensione, ma anche un pezzo di Storia vivente. In lei, il ricordo di quei giorni, è più che mai vivido. La mente è lucida. Mentre gli occhi, di un azzurro cristallino, si bagnano ancora nel rammentare quel dolore che è stato sì di un popolo, ma anche e sopratutto di una bambina violata nell’infanzia. Nonostante l’età non si sottrae però al compito di portare ogni anno la sua personale testimonianza ai ragazzi delle scuole medie. Ma anche un messaggio, che è di “pace e libertà”.

Signora Maria Dusman, ci racconti la sua storia?

Il 10 Febbraio 1947, io insieme alla mia famiglia ci siamo imbarcati sopra al vaporetto Toscana per raggiungere l’Italia, in quanto non potevamo più sopportare quelle che erano le situazioni politiche che si erano venute a creare nel nostro territorio, e a Pola in modo particolare. Allora abbiamo avuto il dilemma se rimanere lì e cancellare completamente la nostra italianità, oppure arrivare in Italia e cercare di ricostruire una vita fondata su quelli che erano i diritti fondamentali, in modo particolare quelli della libertà. E quando dico libertà intendo la libertà di espressione, di pensiero, fondata soprattutto sul rispetto dell’altro.

E poi cosa è successo?

Ci hanno fatto salire su di un treno e siamo arrivati nel campo profughi di Bagnoli, vicino Napoli, dove per un paio di giorni ci hanno intrattenuto, dandoci almeno le cose fondamentali. Eravamo assieme ad altri sconosciuti, ma come noi esuli. Siamo stati lì un po’. Poi, non ricordo con quale criterio, ci hanno dislocati. E siamo arrivati in Sicilia, nella fattispecie proprio a Pedara.

Dove alloggiavate?

Siamo stati ospitati all’interno della canonica della Chiesa dove ci sono delle celle, delle stanzette. Siamo state là per un certo periodo. Poi, piano piano, dal momento che non avevamo né parenti né amici che ci potessero ospitare, abbiamo cercato un’abitazione indipendente e un pochino meno angusta. E ci siamo affittati una casa.

Con quali risorse?

Quando siamo arrivati qua eravamo quattro fratelli. C’era solo nostra madre con noi. Lei, poveretta, che a Pola aveva un’ottima lavanderia, ben avviata, qui si è trovata spiazzata. Non aveva assolutamente niente. Non abbiamo potuto portare con noi assolutamente niente. Ad ogni modo: siamo rimasti qua a Pedara. Mia madre, avvalendosi soltanto della grande volontà di lavorare, facendo qualunque attività, pur di portare avanti i figli, ha cercato di organizzarsi e soprattutto di ambientarsi, e in particolare di fare ambientare anche noi.

E per voi figli?

Mia sorella ed io siamo riuscite a vivere qua. E tuttora di fatto siamo pedaresi. Anche perché abbiamo sposato dei pedaresi. I miei fratelli invece non hanno avuto questa forza e sono andati via, perché non riuscivano assolutamente ad ambientarsi. Io poi, grazie ad una borsa di studio, ho potuto continuare a studiare una volta finita la quinta elementare. Una borsa di studio particolare che mi ha permesso, dalla prima media fino al terzo liceo, di non pagare né tasse, né vitto e alloggio, perché sono stata ospitata in un istituto salesiano di Piazza Armerina. Mia sorella invece non ha studiato, però anche lei, con il suo lavoro, ha cercato in tutti i modi di portare avanti la famiglia.

Lasciando Pola cosa ha perso?

Io ho perso la mia fanciullezza. Le posso dire che non sono stata mai bambina. Sono vissuta sempre sotto l’incubo delle bombe. Le dico, per inciso, che quando siamo venuti qui, proprio a febbraio, a poca distanza, nel mese di maggio, ci fu la festa di Sant’Alfio, con tutti quei fuochi artificiali. Nel sentirli io sono stata talmente traumatizzata che per molto tempo non ho potuto, mi creda, neanche parlare… e pensare che abbiamo lasciato tutto ciò che avevamo per venire qui, ed ancora i bombardamenti ci seguivano! Non riuscivo ancora a fare la differenza tra i fuochi artificiali, praticamente, e i bombardamenti veri e propri, che dal ’43 in poi erano quotidiani.

Nella sua carta d’identità cosa c’è scritto come luogo di nascita: Pola-Italia o Pola-Jugoslavia?

Nonostante ci sia una legge per i profughi giuliano-dalmati del 15/02/1989, che dica che sul documento ci deve essere solamente il luogo di nascita, con la sigla della provincia, e non lo stato attuale. Quando sono nata, nel 1940, Pola era italiana. Ora nella carta d’identità mi ritrovo “nata a Pola (Serbia e Montenegro)”. Che per altro è pure un errore: oggi quella zona appartiene alla Croazia. D’altro canto mi hanno insegnato che il computer è una macchina scema e sono quelli che fanno i programmi che dovrebbero veramente aggiornarsi. Ma non è solo un problema di carta d’identità, anche quando vado a fare dei controlli medici, gli addetti si trovano in difficoltà. Mi chiedono “Pola provincia di che?”. Certo, chi mi vuole fare un piacere preferisce non mettere nulla. Anche questa, dopo, tanti anni è ancora una incongruenza.

Ci porti la sua testimonianza, ma è vero che la questione degli esuli e degli infoibati negli anni è stata sottaciuta?

No, non se n’è parlato. Almeno pubblicamente. È dal 2004 che abbiamo questa legge che sancisce la “Giornata del ricordo”. Prima di allora, assolutamente, non se ne parlava. Veniva, come dire, sottovalutata. La differenza rispetto al genocidio della Shoà, è che l’esodo ha riguardato soltanto una fetta d’Italia, cioè l’Istria, che una tempo era italiana e che oggi è stata smembrata tra Serbia e Croazia.

Il suo dolore più grande?

Non è stato soltanto quello di avere lasciato la mia terra, infondo ero piccola e negli anni mi sono ambientata qui. Il dolore più grande era riflesso nel volto di mia madre, la quale era impotente di fronte a quelle situazioni economiche e sociali, che purtroppo ci hanno perseguitato per tanti anni. Mi credo, non mi riferisco soltanto alle condizioni materiali, ma all’essere, per un lungo periodo di tempo, considerati diversi. Questo sì.

Cosa pensano gli italiani d’Istria di voi che siete andati via?

Questo è un proseguo dell’incongruenza della guerra. Quando noi ogni anno andiamo per il raduno a Pola e torniamo a visitare quei luoghi dove i nostri sono stati martirizzatati, vediamo che i rimasti sono un po’ diffidenti nei nostri riguardi, proprio perché pensano che siamo stati dei vili. Ci troviamo purtroppo stranieri nella nostra stessa terra. Questo è un grande dolore. C’è però un associazione nel libero comune di Pola che sta cercando in tutti i modi di riannodare questi fili. Che sta cercando cioè di far capire ai rimasti che ci siamo trovati d’innanzi ad una scelta. A differenza delle vittime della Shoà, devo dire che noi abbiamo potuto scegliere: noi volutamente siamo andati via. Questo non perché appartenevamo ad una certa corrente politica, ma soltanto per il desiderio di poter godere dei diritti fondamentali.

Quali?

La libertà di poter dire quello che ci si sentiva e di essere sopratutto rispettati per le proprie idee. Ed in modo particolare di essere rispettati per l’essere italiani. Di fatti, quando c’è stata l’occupazione, nelle scuole -ho frequentato soltanto parte della prima elementare lì- molti simboli italiani sono stati tolti, come le bandiere, e volevano pure che parlassimo un altra lingua, io allora ho avuto un rigetto. Posso dire che sono sempre stata un’italiana, sotto tutti i punti di vista.

Qual è il messaggio che vuole lanciare ai giovani di oggi, ma anche all’Italia?

Di stare attenti. Di non farsi abbindolare dalle tante cose che si dicono. Di pensare che i documenti che si vedono sono veri. Le cose che sono capitate a me e ad altri nelle mie stesse condizioni, possono capitare a chiunque, in qualunque terra e in qualsiasi stato si trovino. Tutto, a mio avviso, si riduce nel trovarsi in un posto sbagliato nel momento sbagliato. Tutti i posti possono essere sbagliati. E tutti i momenti, forse.

E a chi nega?

Dico di documentarsi e di non cercare i colpevoli. Ma di rendersi conto che veramente questi avvenimenti sono capitati: tanta gente è morta e moltissime persone sono state sacrificate per un sciocco totalitarismo e soprattutto per una visione degli avvenimenti sbagliata.

* da catania.livesicilia.it

Fernando Massimo Adonia

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