La morte di Gabriel Garcia Màrquez, scomparso a Città del Messico a 87 anni, com’è ovvio è finita sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo ed è rimbalzata su ogni televisione e sito internet. Oltre a essere uno dei principali esponenti della letteratura latino-americana del Novecento, oltre ad aver vinto il premio Nobel nel 1982, Garcia Màrquez è stato un personaggio straordinario anche per le sue idee, prese di posizione, amicizie e inimicizie. Quindi un uomo di cultura che è andato al di là dei suoi romanzi e racconti, anche se è per questi ultimi che è diventato famoso e che rimarrà tale anche nei secoli a venire. Su qualsiasi testata internazionale è stata ripercorsa la sua giovinezza come giornalista e critico cinematografico, i primi passi come regista, i soggiorni all’estero tra i quali la visita che gli cambierà la vita nella Cuba di Fidel Castro e Che Guevara. Poi l’attività come romanziere, le difficoltà a pubblicare fino al botto con la sua opera più famosa, Cent’anni di solitudine, uscito nel 1967.
Dal ’67 in poi arrivano la notorietà, il successo internazionale, il denaro, altri capolavori egli incontri con i leader politici internazionali. Inutile dilungarsi oltre. E’ invece interessante notare che sui social network, in particolare Facebook, la morte di “Gabo” ha scatenato il solito derby fra chi si è precipitato a postare foto, ricordi e inni al maestro scomparso, piangendo la sua scomparsa come quella di un parente stretto; e chi invece ha trovato più “cool” criticarne l’opera, la vita, lo stile, atteggiandosi a critico letterario. Tipico esempio di superficialità internettiana, nella quale conta solo comparire con il proprio nome e la propria faccia sullo schermo di un computer, di un tablet, di uno smartphone. Comparire nel presente, il più in fretta possibile, senza badare a ciò che si dice perché tanto, un’ora più tardi, non interesserà più a nessuno.
Per noi, fatto salvo tutto il resto, Garcia Màrquez rimane l’autore dell’incipit più folgorante e forse più famoso della letteratura novecentesca: “Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendìa si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito”. E’ l’inizio di Cent’anni di solitudine e bastano queste poche righe a far capire di che stoffa sia fatta la scrittura del premio Nobel colombiano. Il chiacchiericcio feisbucchiano si brucia in pochi minuti, i romanzi di “Gabo” resisteranno all’usura del tempo.