Stati Uniti e Cuba alleati? Solo Ernest Hemingway poteva riuscirci. La notizia di oggi è che i due Stati hanno rinnovato un accordo stretto 10 anni fa per preservare la casa cubana in cui lo scrittore trascorse lunghissimi periodi dal 1939 fino alla sua morte per suicidio nel 1961.
La dimora, a 15 chilometri dall’Avana, è diventata un museo in cui sono conservati i mobili originali, i libri e i trofei di caccia, grande passione dell’autore di romanzi leggendari come “Per chi suona la campana” e “Fiesta”. In Italia persino Eugenio Montale fece di tutto per incontrarlo, l’Hemingway ormai malconcio, ustionato, caduto a pezzi, come un albero d’ulivo troppo contorto, lì, in quell’Africa che lo aveva trasformato nel Grande, un incidente aereo lo aveva reso quasi morente. Moravia lo criticò aspramente per il suo stile quasi cacofonico, un po’ come il personaggio Jep Gambardella che riceve altrettante critiche dallo stesso Moravia per il suo primo romanzo… La Grande Bellezza di Hemingway però, è il mare. Il vecchio e il mare. Il suo ultimo capolavoro.
Ci ripensa in quell’ultimo faldone di vita, ormai stanco e tradito dal suo corpo granitico, all’ultimo periodo felice della sua esistenza, quando con la “Pilar”, la sua barca d’altura aveva pescato grossi pesci nella Corrente del Golfo per trentadue giorni di seguito, dal mattino presto al calar del sole. Il vecchio e il Mare, che il 1° settembre 1952 era uscito su “Life” in un numero unico in cui si vendettero oltre cinque milioni e trecentomila copie nelle prime ventiquattro ore dalla loro comparsa nelle edicole, fu il libro che gli fece avere il “Pulitzer” l’anno seguente, premio che sarcasticamente Hemingway chiamava “The Pullover Prize o The Ignobil Prize, con chiaro riferimento al Nobel che si aspettava di vincere e infatti gli fu assegnato l’anno dopo, il 28 ottobre 1954, ma lui non si presentò a ritirarlo perché era ancora alle prese con i postumi del Safari africano. A scrivere questo minuscolo libro Ernest non impiegò che otto settimane, meno di due mesi, ma la storia era stata meditata per oltre vent’anni, fin da quando lo stesso Hemingway, nel 1931, nel suo viaggio a Cuba aveva arpionato un grosso pesce spada e dopo due ore il pesce riuscì a fuggire lasciandolo disperato sotto la pioggia che gli procurò una broncopolmonite. E successivamente, quando aveva arpionato un grosso tonno e nel portarlo a terra se lo vide divorato dai pescecani che lasciarono intatte soltanto la colonna vertebrale, la testa e la coda. Inoltre, a Cuba, dove possedeva la fattoria La Finca Vigia, poco distante dall’Avana – quella dell’accordo Usa/Cuba – egli amava ascoltare i racconti della gente di mare e qualcuno gli avevano raccontato “una storia meravigliosa della costa cubana, una storia davvero straordinaria – scrisse al suo editore – se mi riesce di raccontarla bene”.
“E un idillio del mare in quanto mare – scriverà Berenson – ed è trasmesso in una prosa pacata e irresistibile come il verso di Omero”. In molti vedranno poi ne “Il Vecchio e il mare” una versione disincantata di Moby Dick con riverberi donchisciotteschi. Nulla di più sbagliato. Hemingway lo dirà più volte anche alla sua amica italiana, Fernanda Pivano, che curerà le sue traduzioni – non senza errori, come la parola dolphinfish che in italiano non si traduce con ‘delfino’ ma con lampuga, con buona pace degli animalisti – che il suo è un romanzo vero, vissuto, esasperato, raccontato così com’è. Certo c’è la “puta”, c’è quell’idea di morte e di sconfitta ricorrente in tutta l’antologia di Hemingway, c’è la sconfitta dell’uomo come parabola del sacrificio e del coraggio ma c’è molto di più, qualcosa che non poteva essere raccontata con le immagini – del film con Spencer Tracy, criticato aspramente da Hemingway ancora in vita – ma con il pathos tirato di un pescatore esperto “vecchio e raggrinzito tranne che negli occhi color del mare” nella lotta quasi cavalleresca e onorata con il marlin gigante che lo terrà in barca per più giorni senza sosta, se ne ricava l’idea che persino l’autore abbia scritto questa storia senza mai fermarsi, in un raptus di coraggio e disperazione, come una fatica partorita dalla dicotomica solitudine e dalla compagnia mistica del mare lontano. C’è poi la tradizione, l’amore per ciò che rappresenta la sua lotta, l’insegnamento per ciò che sarà dopo di lui, dopo il Santiago/Hemingway, che lascerà dopo la sua morte, con il ragazzo, che forse rappresenta la nuova generazione di letterati post-rivoluzione culturale, di non arrendersi mai proprio con quel noto aforisma che riecheggia al largo dell’Avana “un uomo può essere ucciso, ma non sconfitto”. E Santiago riposa, alla fine del libro, consapevole che la sua lotta vinta senza trofei, è pur sempre il racconto epistolare di una vita vissuta al massimo – di riflessi alla Kerouac – ma che, alla fine, lascia spazio alla stanchezza e all’amarezza che porterà Hemingway al suicidio, chiudendo così il tormento di un eroe- pescatore, intrepido e malinconico fino alla fine. Fino al rientro nel sicuro porto, tra lo stupore di tutti.