Cinema. Lo hobbit di Jackson sarebbe piaciuto a Tolkien (che detestava Disney)

Esce nelle sale la prima puntata de “Lo Hobbit” di Jackson. Ovviamente, corro a vederlo. E mi diverto un mondo. Perché questo “Hobbit” è a dir poco geniale: tutto è diverso ma è anche uguale. La storia è quella, ma non c’è un solo passaggio che non sia una variazione. Mi viene in mente il disprezzo di Tolkien per Walt Disney, il timore che potesse fare un film sul Legendarium stravolgendolo come aveva fatto per la fiaba di Biancaneve. Ma Jackson non è Disney, e dico a me stesso che Tolkien questo film lo avrebbe apprezzato.

Ecco Bilbo e Frodo il giorno del compleanno di Bilbo, ecco Frodo uscire sperando di incontrare Gandalf: si è a pochi minuti dall’inizio della trilogia cinematografica precedente e lo spettatore che è in me sorride. Poi ecco Bilbo che inizia a scrivere: “In un buco sottoterra viveva uno hobbit” e qui è il cuore del lettore che sobbalza. Per tutto il film Jackson gioca con l’opera tolkieniana, con continue strizzate d’occhio al fan cinematografico e al lettore attento, non necessariamente coincidenti. E se lo spettatore se la spassa per lo straordinario spettacolo e si appassiona all’avvincente prequel della sua saga preferita, il lettore, dopo la prima sensazione di vertigine, comincia a entrare nello spirito del gioco, individuando le variazioni rispetto al libro e le citazioni che solo il lettore può cogliere, strettamente intrecciate tra loro. Ecco comparire Radagast e Azog. Ecco che Azog non è morto, come nel Legendarium ma è vivo e cova la sua vendetta su Thorin. Ma a dire il vero, anche nel film Azog è creduto morto, finché non rispunta, e il lettore si chiede se in realtà Jackson, più che cambiare la storia, non l’abbia piuttosto arricchita. Ecco inserito un episodio in più, fra quello dei Troll e l’arrivo a Gramburrone, in cui la Compagnia dei Nani fugge dagli Orchi, distratti da Radagast e combattuti dagli Elfi a cavallo. Ecco che gli Orchi delle Montagne Nebbiose si chiamano goblin, e solo il vero esperto sa che questo era il nome usato da Tolkien nella stesura originaria inglese, e solo successivamente, nel corso della stesura de “Il Signore degli Anelli” e “Il Silmarillion”, cambiò denominazione e decise di intendere “goblin” come termine arcaico. E guardacaso, i goblin di Jackson, che sono innegabilmente Orchi (le spade elfiche si illuminanano in loro vicinanza) sono però creature assai più primitive dei possenti Orchi di Azog, quasi come se si trattasse di una specie arcaica. E chiaramente qui stiamo azzardando una nostra personalissima interpretazione, ma ormai il gioco a cui Jackson ci ha invitato ci ha preso totalmente. Ecco che Gandalf elenca gli altri stregoni ed arrivato ai Due Stregoni Blu si volta a favor di cinepresa e dice di non ricordarsene i nomi. E sembra pensare: “E voi?”. Il lettore attento i due nomi se li ricorda eccome! (E voi, piuttosto, ve li ricordate?) Ecco che ogni singola scena è simile ma mai identica.

Ma se Jackson non è, ovviamente, Tolkien, non è, come ho già detto, nemmeno Disney. Ecco infatti comparire tutti gli elementi alla base della poetica tolkieniana e della storia: l’eroismo dei piccoli, incarnato da Bilbo, la sofferenza dei Nani e la nostalgia per la terra perduta, la nobiltà di Thorin Scudodiquercia, la disperazione di Gollum e la pietà di Bilbo per lui, l’iniziale diffidenza dei Nani per il piccolo hobbit e la sua capacità di conquistarsene la fiducia. In effetti ciò che a Tolkien era risultato addirittura “disgustoso” in “Biancaneve e i Sette Nani” (come scrisse in una lettera a Jane Louis Curry datata 15 luglio 1964) era la riduzione della fiaba a semplice spettacolo cantato, ballato e fischiettato, svuotandola dai suoi significati profondi, ancestrali e misteriosi. E il terrore di una trasposizione disneyana della sua opera era dovuto all’incubo che potesse essere fatta oggetto di quello che ai suoi occhi era uno scempio. Jackson, invece, riesce a coniugare al grande spettacolo un grande fedeltà nel messaggio, a dispetto della grande libertà che si prende nelle singole scene. Certo, “Lo hobbit” di Tolkien e quello di Jackson non sono la stessa opera, ma piuttosto due opere ben distinte che hanno una radice comune. Del resto, il regista di un film è a sua volta un autore, e quindi il ruolo ne sarebbe svilito se si limitasse a riprodurre pedissequamente la stessa vicenda limitando il proprio apporto ad una serie di spettacolari effetti speciali.

Ora so che dopo questo articolo le spade elfiche di molti puristi si illumineranno al mio passaggio, ma a loro mi sento di rispondere con una citazione di Antoine de Saint-Exupery: “Non si vede che con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”. Guardatelo col cuore, questo film, e vedrete che l’essenziale c’è tutto.

Paolo Maria Filipazzi

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