Cinema. “L’intrepido” di Amelio con Albanese antieroe dell’arte del rimpiazzo

albanesePiatto del giorno, “L’intrepido”: un pasticcio milanese con fette di Pane raffermo in salsa agrodolce. Una metafora culinaria indotta e che ben si adatta all’ultimo film scritto e diretto da Gianni Amelio, “L’intrepido”, presentato in anteprima alla 70° edizione della Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia.

Antonio Pane (Antonio Albanese), il protagonista, vive nella Milano odierna e da disoccupato sopravvive grazie alla sua arte, quella immaginaria del “rimpiazzo”; cioè sostituire, anche solo per qualche ora, altri lavoratori assenti dalla loro occupazione ufficiale facendo di volta in volta il muratore, il pescivendolo, lo spazzino allo stadio. Antonio è un uomo fondamentalmente solo: la moglie (Alessandra Ceccarelli) lo ha lasciato per un “altro da lui” e più in sintonia coi tempi e il figlio Ivo (Gabriele Rendina, interprete giovane e inesperto, espressivo nella recitazione, forse troppo a volte, tanto da risultare quasi comico), un artista suonatore di sax e in preda ad attacchi di panico.

Un giorno, ad un concorso pubblico, Antonio conosce una giovane donna inquieta, Lucia (Livia Rossi, anche lei interprete giovane e inesperta, poco convincente e credibile), alla quale offre un aiuto disinteressato. Ma la pietanza rimane indigesta e la causa è da ricercarsi nella figura di Antonio Pane, in primis. Un lavoratore, un intrepido, che offre fette di sé ai bisognosi con l’unica rassegnata pretesa di essere pagato ogni tanto (“Io non dico che mi dovete pagare sempre … ogni tanto”)?! Ma come può funzionare! Un remissivo, ingenuo, fatalista e inopportuno altruista ( chiede a tutti “come posso aiutarti?”, a testa bassa e volto teso e preoccupato, e proprio per questo l’altruismo è falsato, costretto a fare i conti con la manipolazione della vita di tutti i giorni).

Un surreale anti(eroe) di una metropoli incantata capace di indignarsi solo quando urta contro la realtà, magari accorgendosi di essere stato ingannato o imbrogliato per l’ennesima volta (l’umoristica sequenza del negozio di scarpe, per esempio). Un uomo ordinario che fallisce come figura paterna e umana, perché non riesce a dimostrare, eccetto a se stesso, che esiste una speranzosa opportunità in un futuro migliore. In secundis, nel “pasticciaccio” dei vari ingredienti: numerose digressioni, temi narrativi poco approfonditi, seppur interessanti e veritieri e personaggi di scarso spessore. Tutto finisce per accartocciarsi su se stesso senza una via d’uscita, stantio ed agro che nemmeno un dolce sorriso sullo sfondo riesce ad ammorbidire. Forse, solo stomachi da struzzo o di ferro possono assaporare pienamente questo film.

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Valentina Berti

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