Artefatti. Disagio, Debord e CCCP: quarant’anni di mitologia postmoderna

La mostra Felicitazioni! CCCP - Fedeli alla linea 1984-2024 raccontata da Donato Novellini

Agli inizi di gennaio Reggio Emilia si presenta livida, austera, elegantemente decadente nelle sue stridenti contraddizioni architettoniche, le luminarie intermittenti dei negozi del centro storico non fanno che accentuare una certa malinconia, tipica di fine festività. Padania invernale oltremodo bigia, sensazione di posterità nell’aria, sotto i portici giallastri la gente sfila via infreddolita, badanti bulgare vecchi emiliani e giovani africani, questuanti, un musicista stropicciato intona canzonette balcaniche nell’indifferenza generale. L’atmosfera ideale, insomma, per visitare al suo scadere la mostra Felicitazioni! CCCP – Fedeli alla linea 1984-2024. Passata l’inaugurazione in pompa magna con autorità ed enti preposti, perso per pigrizia il “Gran Gala Punkettone di parole e immagini” – la famigerata, dignitosa e a tratti commovente, riunione del gruppo – non rimane che affrontare ciò che resta, ed è davvero molto.

Lo spiazzo d’accesso ai chiostri di San Pietro, sede dell’iniziativa celebrativa per il quarantennale dei CCCP, annuncia con un certo titanismo estetico il titolo della mostra in caratteri rossi, silhouette ferrose di soldati sovietici cadenzano il passo, materico logo replicato su locandine e vessilli promozionali. Il percorso s’inaugura nel chiostro grande, al centro del quale è allestita una sordida scenografia che riporta direttamente alla Repubblica Democratica Tedesca: stele di cemento feticcio del Muro di Berlino, altoparlanti, cavalli di frisia, una Trabant grigia in odore di Stasi. All’interno del colonnato si manifesta la ricorsività di una scritta appesa sopra la testa dei visitatori – “è una questione di qualità” – rammenta soprattutto ai novizi la capacità dei CCCP di creare slogan fattisi longevi e non meno efficaci all’oggi, su tutti il sempiterno trittico “Produci Consuma Crepa” o il nichilismo anticonformista di “Non studio non lavoro non guardo la TV non vado al cinema non faccio sport”.  Dunque la parola, a metà anni ‘80 maneggiata da Giovanni Lindo Ferretti con piglio avanguardista primonovecentesco, si fa schiaffo futurista antiborghese, ma altresì si sovrappone icasticamente ai seriali motteggi della nascente pubblicità televisiva.

All’inizio fu amarcord filosovietico e le prime sale ne danno fedele testimonianza, Ortodossia esordio punk andava a ribaltare tutti gli stereotipi anarcoidi occidentali, puntando l’attenzione verso il rigido quanto ai più ignoto immaginario comunista d’oltre cortina, abilmente screziato da turbolenze Majakovskij. Un paradosso? Uno dei tanti, ma qui trattasi d’arte, mica di vassallaggio politico. La radicale contrapposizione al colonialismo (musicale, ma non solo) anglofilo si manifesta, tassello dopo tassello, sala dopo sala, grazie ad uno scrupoloso, filologico, lavoro di recupero; non solo oggettistica e memorabilia originale, ma come usa oggi offrendo al visitatore un’esperienza totale: musica, video, installazione, documentazione. Da notare come all’epoca la stampa tendesse erroneamente a circoscrivere i CCCP-Fedeli alla Linea nella categoria del rock demenziale, erano invece serissimi e premonitori. Berlinguer s’era adagiato nell’Eurocomunismo, Rocky e Rambo furoreggiavano al cinema, tutto l’armamentario di falce e martello stava diventando anticaglia kitsch per i mercatini dell’usato. La messinscena teatrale dei CCCP sembrava parodiare l’ideologia per farne icona da rigattieri o carne da macello. Oppure una cosa nuova, fatta di scarti di modernità e geniali intuizioni: La discarica del progressismo era ed è sempre aperta nel fine settimana, c’era un mondo intero da rottamare senza null’altro di credibile da imbastire in alternativa al capitalismo, se non la compulsiva azione di un gesto avverso.

Giovanni Lindo Ferretti ieratico, emaciato declamatore, Massimo Zamboni conciato come un funzionario bolscevico, Annarella benemerita soubrette sfarzosa e proletaria col suo bizzarro guardaroba, Fatur artista del popolo, pronto ad agitarsi con materiali di scarto e ferraglia assortita addosso, tutto ciò è ampiamente documentato nella mostra curata alla perfezione da Stefania Vasques; così come è evidente l’evoluzione artistica del quartetto, passato dai centri sociali e dalle balere alla tv con Amanda Lear, dai ciclostilati agli scatti Luigi Ghirri senza mai perdere coerenza. Di certo il luogo ospitante ha contribuito e non poco alla riuscita di Felicitazioni!. L’alternarsi di spazi finemente decorati ad altri quasi cantieristici, spogli come celle monastiche, fa dei chiostri di San Pietro un luogo di raro fascino. Di conseguenza il percorso espositivo muove talvolta in armonia, talaltra a contrasto con l’ambiente architettonico.

Una questione d’appartenenza, contraddittoriamente vagante, nomade, apolide ma di ritorno, come seguendo una traccia, linea riconoscibile e condotta salda: iperboli di Mishima, Gheddafi, l’Islam, Beirut, Kabul, Palestina, Hong Kong e Pechino, Mosca, Reggio Emilia e Berlino, le cascine diroccate all’ombra degli argini del Po, infatuazioni orientali e decadenza occidentale radicalizzate in tempi non sospetti pur di non cedere alcunché all’amico americano, medesima situazione nella quale si ritrovarono a fare film i registi tedeschi della JDF come Herzog o Fassbinder. Nessuna traccia di Nuova York, qui. Disagio padano, Guy Debord e La società dello spettacolo, Intellettualismo e popolarità, come solo negli anni ‘80 poteva capitare. Malessere patriottico mutante, fattosi arte iconoclasta della crisi eterna e memoria d’azioni coraggiose, atti inani performance velleitarie, imprese ardimentose e repubbliche di Weimar, gioiellerie vetuste ammirate oggi nel noioso presente uniformante, nella latrina conformista che ci costringe, ad esempio, a fare la fila e a pagare un biglietto per la mostra quando avremmo dovuto “scavalcare”. Osserviamo infatti cimeli perduti, araldica dismessa, l’epica senza proseliti, una mitologia postmoderna alla quale Warhol avrebbe concesso non più di un quarto d’ora di celebrità. Invece no: è durata quarant’anni e forse non è ancora finita.

 

 

 

Donato Novellini

Donato Novellini su Barbadillo.it

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