“C’è ancora domani”, tutte le sbavature nel film di Cortellesi

Giuseppe Del Ninno: la regista non riesce a dosare i caratteri finendo per "caricare" eccessivamente i protagonisti

La locandina del film della Cortellesi

Non tutti i bravi calciatori diventano bravi allenatori, e così non tutti i bravi attori diventano bravi registi. Con il suo “C’è ancora domani”, Paola Cortellesi, da tempo affermata nel suo ruolo d’interprete, dimostra di saper stare dignitosamente anche dietro la macchina da presa, così promettendo un futuro anche a se stessa nella sua nuova veste. Quello che sta riscuotendo un successo di pubblico forse inaspettato è infatti un film che parte dal passato per lanciare un messaggio di speranza sul futuro, prendendo spunto dalla condizione femminile.

 

I film a tema espongono gli autori al rischio non tanto del partito preso, quanto della esasperazione dei toni, e se un addebito si può muovere alla Cortellesi, è proprio quello di non aver saputo – o voluto? – “dosare” i caratteri, attribuendo ai protagonisti una caricatura – alla lettera – simbolica: siamo a Roma nel giugno del 1946, all’indomani della guerra perduta e alla vigilia del referendum “monarchia o repubblica”, in occasione del quale, per la prima volta, alle donne verrà riconosciuto il diritto di voto. Questo il dato temporale; quanto al luogo, la vicenda di Delia (impersonata dalla Cortellesi) e del marito Ivano (un imbolsito Valerio Mastandrea), genitori di una ragazza in età da marito e di due pestiferi maschietti, si svolge nel popolare quartiere di Testaccio.

 

Le strade di Roma sono ancora pattugliate dalle jeep della ”Military Police”, i generi alimentari sono razionati, le sigarette sono un bene prezioso (ma si può fumare dovunque) e, come il vino, si vendono anche sfuse; i bambini giocano nei cortili dei caseggiati popolari e per il lavoro ci si arrangia: così Delia ripara ombrelli, fa iniezioni, stira panni per conto di altri e, naturalmente, accudisce la famiglia, che include un suocero infermo e dispotico.

 

Tanto per far capire l’atmosfera – e la cultura – dell’epoca, il film si apre col risveglio dei coniugi nella camera da letto del loro appartamento in un seminterrato, quando, senza alcun motivo – a mo’ di buongiorno… – Ivano molla un ceffone alla moglie. Ma questa è solo la prima delle esagerazioni “imposte” alla regista dall’esigenza di dimostrare il suo teorema: c’è infatti tutta una sequenza di situazioni dove l’uomo di casa non perde occasione per denigrare la moglie, anche davanti ai figli, e lei a questi ultimi – e ai vicini – si mostra docile fino ad un’esasperante passività.

 

Chi scrive non era nato in quel 1946, ma ha vissuto la realtà degli anni 50 del Novecento, tanto da poter dire che non ricorda simili eccessi di quella cultura dominante, indubbiamente ispirata al patriarcato. Del resto, nel film quello sminuire la figura femminile non è esclusivo di una classe sociale: quando Delia entra in un appartamento altoborghese per consegnare un suo lavoretto, assiste a una tirata del padrone contro la consorte, non troppo dissimile da quelle che le infligge Ivano.

 

Ma c’è un’altra lacuna in questa narrazione: in un periodo in cui ancora si cantava l’antico successo di Beniamino Gigli, “Mamma”, proprio non vi è traccia, nella protagonista, di un sentimento materno che vada oltre i doveri di accudimento. E’ vero, Delia si preoccupa per la figlia maggiore, nel momento in cui sta per sposarsi con un ragazzo che le vuol bene, ma manifesta quell’istinto di possesso che, lei teme, sarà alla base delle prepotenze fatali in un rapporto coniugale, una volta esaurita la passione ed attenuato l’amore. Tuttavia, quella preoccupazione sembra scaturire più che da un sentimento materno, da una solidarietà di genere e cioè dal timore che alla ragazza tocchi un destino come il suo. “Pensaci bene, figlia mia, il matrimonio è per sempre!”: e già, il divorzio, le famiglie allargate, le convivenze senza neppure le unioni civili erano di là da venire…

 

Gli ambienti, va riconosciuto, sono ben ricostruiti ed è suggestiva la fotografia in bianco e nero; di sicuro, la Cortellesi ha tenuto presente la lezione del neorealismo, con particolare riguardo a un film come “Bellissima”, con il quale però sarebbe ingeneroso stabilire paragoni, data la classe irraggiungibile della Magnani e l’efficace misura di un regista come Visconti.  Si colgono poi echi del Paolo Sorrentino di “Young Pope”, nella sfilata di personaggi per le vie del quartiere, e spiazzano lo spettatore momenti d’incongrui squarci di musical americani, nelle movenze goffe dei due protagonisti, che tra uno schiaffo e l’altro danzano come una caricatura di Ginger e Fred.

 

Ancora: la colonna sonora comprende “Perdonami”, cantata da Giorgio Consolini e, concedendosi una licenza temporale d’autore, “Aprite le finestre al primo sole” (che vincerà il festival di Sanremo nel 1956), brani che illudevano le fanciulle d’allora sulla delicatezza e la persistenza dell’amore; ma di tali sentimenti aurorali vi sono soltanto tracce illusorie nel racconto filmico; anzi, sembra che i soli amori duraturi siano quelli che non sfociano nel matrimonio (che, secondo il bizzoso suocero, andrebbe contratto solamente fra cugini e si dovrebbe fondare sulla silente obbedienza della donna, comunque da picchiare ogni tanto).

Il finale

Per preparare il finale – simbolico e liberatorio – non mancano, in Delia, nascoste trasgressioni: fa la cresta sui suoi stessi guadagni, al momento di consegnarli al marito despota; a proposito di amori infelici, indugia a chiacchierare con un suo antico e insistente corteggiatore, che le propone di seguirlo nella sua avventura lavorativa a Milano; accetta la classica cioccolata da un MP americano di colore e, soprattutto, grazie a questi, manda a monte il matrimonio della figlia, che già vedeva invischiata in una famiglia di spocchiosi neoricchi.

Ma viene il giorno della liberazione, che coincide non tanto con la morte nel sonno del suocero, quanto con il giorno del referendum, la cui eco risuona discreta in tutto il film, senza mai sfociare in considerazioni politiche: si vota, fra l’entusiasmo di masse di nuove elettrici, per il nuovo ordine di libertà e democrazia e, quanto alla storia privata di Delia, ci si prepara per una nuova vita, forse lontano dalla famiglia e comunque sciolta dalla schiavitù maritale. Insomma, c’è ancora un domani, carico di speranze ma anche di illusioni e disillusioni, oggi che quel futuro è sopraggiunto e che la parità di genere, pur tra tanti progressi, resta da completare, senza ignorare  che il prezzo pagato per la loro emancipazione – compresa la nostra società – appare molto alto anche per le donne.

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Giuseppe Del Ninno

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