Guerra e pace ai tempi di Lorenzo il Magnifico: un nuovo saggio di Barsacchi

L’abilità dell'autore immette il lettore nel quotidiano di quel frangente storico, nei complessi rapporti dinastico-politici e lascia intravedere sullo sfondo la vita delle Corti animata dalla presenza di insigni artisti ed intellettuali

Lorenzo il magnifico

È nelle librerie un nuovo saggio di Marco Barsacchi. Questa volta, la versatilità intellettuale dell’autore, lo ha indotto a occuparsi di un periodo storico cruciale per le sorti italiane, caratterizzato dalla luminosa presenza di Lorenzo il Magnifico. Ci riferiamo al volume, Il teatro della guerra e della pace ai tempi di Lorenzo il Magnifico, edito da Solfanelli (per ordini: 0871/561806, edizionisolfanelli@yahoo.it, pp. 214, euro 16,00). Il saggio presenta il conflitto: «tutto italiano, che ebbe luogo dopo la ben nota congiura dei Pazzi, tentativo  […] di eliminare i Medici e ridimensionare il dinamismo finanziario e politico di quella famiglia» (p. 5). La guerra durò due anni (1478-79) ma, prima di arrivare alla pace effettiva, ne trascorsero altri due. Il libro è impreziosito da un Appendice che raccoglie documenti storici: innanzitutto, i termini della capitolazione di Colle, che il 15 novembre 1479 pose fine al conflitto, nonché il Trattato di pace sottoscritto il 13 marzo 1480 a Napoli. Questa parte conclusiva è arricchita da una serie di Tavole, tra cui segnaliamo gli alberi genealogici delle famiglie Aragona e Medici.

   Il libro riveste un duplice interesse. Svolge, infatti, una significativa chiarificazione storica rispetto alle condizioni della penisola italiana nel corso del Quattrocento (compito espletato in forza dell’ampia discussione di documenti e cronache del periodo), ma presenta anche un indiscutibile valore letterario. L’abilità scrittoria di Barsacchi immette il lettore nel quotidiano di quel frangente storico, nei complessi rapporti dinastico-politici e lascia intravedere sullo sfondo la vita delle Corti animata dalla presenza di insigni artisti ed intellettuali. La guerra di cui si tratta fu combattuta prevalentemente in Toscana, ma  a essa presero parte, oltre alla Repubblica Fiorentina, il Ducato di Milano, la Repubblica di Venezia, il Papato, il Regno di Napoli, oltre a realtà istituzionali più  piccole e con un ruolo marginale nello scacchiere italiano. 

   La narrazione degli eventi bellici è minuziosa, attenta alla ricostruzione degli eventi, ma altresì mirata a trascrivere le reazioni che essi produssero nella stratificata realtà sociale del Quattrocento. Confronti cavallereschi e comportamenti nobili si accompagnarono a chiari atti di slealtà. Le masse popolari, in particolare contadine, manifestarono, un legame profondo con la terra d’origine, ma non compresero le ragioni delle devastazioni che la guerra provocava e le ragioni del contendere. L’incipit del volume muove dalla congiura dei Pazzi e Salvati e dalla successiva scomunica comminata dalla Santa Sede. L’autore mette in rilievo il ritardo con il quale presero avvio le operazioni militari da parte della Repubblica Fiorentina e si intrattiene sulla debolezza interna, politica, di alcuni dei contendenti, in particolare del Ducato di Milano. Si sofferma, attraverso descrizioni realistiche, sul sacco di Casole e sull’incendio di Certaldo, che condussero al termine del conflitto. Nel presentare le trattative (complesse) di pace che riproposero, di fatto, lo condizione politica pregressa, Barsacchi apre lo sguardo sulla situazione internazionale e sulla presenza turca nel Mediterraneo.

   I capitoli di maggior interesse ci paiono il primo e quello conclusivo. Nel primo, Barsacchi si occupa delle condizioni politiche della penisola italiana e in particolare dell’organizzazione delle “forze armate”, in quel frangente di grandi cambiamenti: «La cultura umanistica e il mecenatismo dei Signori italiani è la splendida cornice di condizioni politiche sempre precarie […] in cui è difficile cogliere il segno di un’aspirazione a superare le diffidenze reciproche […] qualche reale tentativo di comporle in un solido scacchiere unitario» (p 7), come, al contrario, stava avvenendo in Europa. L’autore tratteggia i rapporti poco chiari tra i diversi Stati italiani. Firenze e Roma passarono da un’iniziale collaborazione all’aperta ostilità, che sarà una delle cause scatenanti la congiura dei Pazzi. A muovere dall’ultimo trentennio del Quattrocento, il Papato individuò nel Regno di Napoli il proprio naturale alleato: «Ferrante sosteneva Sisto IV e la sua famiglia […] ma era convinto che essi non sarebbero riusciti a dar vita a un ampio e solido dominio nell’Italia centro-settentrionale» (p. 19). Medesima incertezza vigeva all’interno dei singoli Stati, in particolare a Firenze, dove i Pazzi avrebbero voluto sbarazzarsi del potere politico-finanziario dei Medici (la congiura ordita da questi ultimi, è descritta nei suoi rocamboleschi particolari).

Le “forze armate”, d’altro canto, alla metà del XV secolo, erano prevalentemente costituite da combattenti a cavallo. L’ “uomo d’arme” era accompagnato dalla propria lancia, che in Italia era costituita, oltre che dal cavaliere, da paggio e garzone. Alla lancia italiana mancava il supporto dei balestrieri, attivi in altri eserciti. Le lance erano riunite in squadre, comandate da un conestabile. Ruolo rilevante (non positivo, ben lo sapeva Machiavelli) fu svolto da soldati cui veniva versata quale retribuzione la condotta. Solo nella seconda metà del XV secolo la fanteria cominciò a svolgere un ruolo militare più significativo, mentre le armi da fuoco: «non costituiscono ancora un elemento determinante del successo militare» (p. 29).

    Nell’ultimo capitolo, l’autore formula un giudizio critico nei confronti dell’inconcludenza politica degli Stati italiani. Le loro imprese guerresche: «non sono animate da alcuna idea più grande dell’orizzonte locale» (pp. 176-177). Machiavelli comprese il senso di tutto ciò. Si trattava della messa in scena di una rappresentazione teatrale. Del resto, a dire dell’autore, nell’Umanesimo:      «finisce per avere il sopravvento una ricerca della codificazione, della maniera, delle regole e dell’eleganza formale, nel campo delle lettere come in quello delle arti e dei costumi civili» (p. 178). Insomma, la figura del Magnifico, rappresenta in uno, il culmine della storia millenaria italiana: «ma costituisce anche un punto di arrivo e di mancato superamento» (p. 178). Agli uomini della Rinascenza mancò il senso vivo del presente. L’equilibrio garantito dalla Pace di Lodi, non aveva più alcun senso storico. La grande spinta culturale al Nuovo Inizio, rimase compressa, pertanto, in un ambiguo e improduttivo localismo politico.

   Chi guardi con interesse al “pensiero italiano” quale topos di una possibile ripartenza deve oggi tener conto di tale lezione e di quella desumibile dagli esiti del successivo Risorgimento. Merito maggiore di questo suo libro, l’aver  riproposto all’intelligenza dei lettori tale esiziale conclusione.

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Giovanni Sessa

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