Pensiero scientifico, mito e filosofia: un saggio di Giorgio de Santillana

Di fronte alla pervasività della tecno-scienza prodotta dal capitalismo cognitivo, guardare al “panteismo” ellenico può essere d’aiuto

Le origini del pensiero scientifico di Giorgio de Santillana

Tra gli studiosi che hanno contribuito a mostrare la continuità di mito e lógos va annoverato Giorgio de Santillana. Tra i suoi saggi segnaliamo, Le origini del pensiero scientifico, da poco nelle librerie per i tipi di Adelphi (pp. 438, euro 15,00). Si tratta di un libro lungamente pensato, ricco di riferimenti eruditi ma chiarissimo nella presentazione delle argomentazioni. De Santillana, nel mostrare l’esistenza, fin dalla preistoria, di un sapere organico atto a spiegare l’origine del mondo e il senso della vita, utilizza la lezione di James Frazer. L’etnologo nel Ramo d’oro: «Rivelò l’antichissima diffusione mondiale di credenze, operazioni magiche e riti di fertilità che con ogni probabilità precedevano la civiltà […] e dimostrò che essi sono la profonda infrastruttura universale delle nostre culture storiche» (p. 17). Il mito, pertanto, non è un sapere datato ma rappresenta la sorgente vitale da cui emerse la stessa scienza moderna.

   Più in particolare, prosegue l’autore, fu: «l’osservazione dei moti celesti che ha stimolato l’uomo a ricercare gli invarianti impersonali che si celano dietro gli avvenimenti» (p. 21). L’originario linguaggio mitico deve essere interpretato quale testimonianza della visione del mondo di ignoti astronomi-astrologi arcaici. Questi presentarono: «quelle poche cognizioni che allora si avevano circa la struttura dell’universo sotto forma di storie che narravano “come il mondo è cominciato”» (p. 24). Tali storie consentivano agli ascoltatori di “intendere” come le cose erano realmente andate, pur mancando di vere “dimostrazioni”. Tale sapere, attorno al VI secolo a.C., era ormai obliato. Fu la filosofia greca  a riproporlo con la riscoperta della physis presocratica. Le pagine di de Santillana sono connotate dalla stringente esegesi delle tesi di questi antichi pensatori, condotta attraverso l’analisi dei loro testi. 

   Dalle posizioni dei filosofi ionici si evince la sintesi delle propensioni proprie dell’uomo ellenico arcaico: lo slancio mistico, la tensione politica, accompagnate da una prepotente volontà di conoscere. Mimnermo aveva posto l’accento sull’aspetto tragico della vita, sull’esistenza effimera degli enti di natura, Anassimandro, scorge, al contrario, nelle cose: «un ordine che è al medesimo tempo naturale e morale. Ciò che fiorisce deve morire» (p. 34). Un’ intelligenza impassibile agisce ciclicamente ed è all’opera nel cosmo. La tesi anassimandrea dell’origine dell’universo da un “vortice fluido”,  rileva l’autore, è prossima a quella delle cosmologie scientifiche. L’indeterminato è l’arché e da esso derivano per separazione gli enti, il cui sviluppo è letto in termini evoluzionistici. Nello spazio infinito possono esistere mondi infiniti. Tale modalità di pensiero: «costituisce la forza e l’apertura della fantasia scientifica […] assume rischi calcolati […] può dedurre ciò che è da ciò che non è» (p. 53), pur essendo costruito su contenuti mitici. Il modello del   cosmo ionico è ricavato dalla pólis, comunità autoregolantesi. Ma a differenza che nella comunità politica, in esso governa una necessità ineluttabile. 

  Lungo tale strada, Eraclito, pensò il reale come instabile, centrato sul gioco relazionale degli opposti. Dietro l’apparente presenza degli enti, si cela un unico principio, il pur-folgore. La giustizia di Anassimadro assume in Eraclito tratto simultaneo, atemporale: «il dualismo di substrato e apparenza diventa qui dualismo di onda portante e messaggio trasmesso» (p. 69), inoltre, fa la sua comparsa la nozione di nómos, legge. Un nómos ben distante dall’idea della “necessità delle cose” moderna, in quanto sorto: «da quella concezione panteistica che collega l’uomo all’universo» (p. 71) che, fino ai nostri giorni ha turbato i sonni della scienza ufficiale. Solo con Parmenide, intransigente pensatore dell’Essere e fondatore della logica identitaria, si afferma l’idea di una spazio fisico-matematico. Non è casuale che il suo allievo Zenone, con i paradossi, presenti il primo esempio di logica matematica. Parmenide va oltre i Pitagorici: questi avevano individuato nel numero-punto il Principio. Parmenide torna a presupporre un substrato formale, portatore di tutte le forme: «In quel Continuo di nuovissima concezione, tutta la matematica ha il suo terreno nativo e la sua dimora» (p. 135). Eppure, il Poema del grande Eleate ha tratto mitico-sacrale. La Via della Verità ha condotto Parmenide di fronte all’idea di “certezza”: «ma nel campo della fisica egli si limita a fare ragionevoli congetture» (p. 138).

   Contro tale esito insorsero i pluralisti Anassagora, Empedocle e Democrito che, in modalità diversa tornarono a sostenere che l’Essere era nei fenomeni, negli avvenimenti: «non al di sotto o al di là di essi» (p. 148). Anassagora fece ricorso all’Intelletto, Empedocle alle forze di Amore e Discordia dicendo di un cosmo instabile dal funzionamento ciclico che, periodicamente, sarebbe tornato allo Sfero. Nell’agrigentino, la dimensione mitico-religiosa è coronamento del sistema scientifico-cosmologico. Per l’atomista Democritio, la Moltepicità deve avere i medesimi tratti ontologici dell’Uno. Egli introduce oltre all’idea di atomo, anche quella di vuoto, superando l’horror vacui del pensiero antico: teorizzò il principio d’inerzia e lo spazio infinito. Per conoscere la Natura bisogna soffermarsi sulle proprietà quantitative degli enti. A tale posizione si richiamerà la scienza moderna.

  A seguito del sommovimento sofistico-socratico, si produsse la reazione platonica. Questa concesse l’Essere alle sole idee, all’Iperuranio, la cui conoscenza assunse tratto epistemico. Da allora si aprì un abisso tra Natura e Idea. La physis fu ridotta a mera oscurità. La grandiosa costruzione politica di Platone è pensata su tale principi: il filosofo-governante è colui che sa, che conosce le Idee. La visione mitico-religiosa, pur presente in Repubblica, riemergerà prepotentemente ne Le Leggi e nel neo-platonismo ellenistico. Aristotele, pur tentando un ritorno alla Natura, alla valorizzazione del particolare, lo realizzò attraverso: «l’accostamento logico-verbale» (p. 283). Più in particolare, la riscoperta della physis nello Stagirita ebbe tratto induttivo, privilegiò, a scapito della  matematica, l’approccio biologico-empirista: «Qualsiasi testimonianza di un ordinato processo è, per Aristotele, la prova di un qualche genere di rapporto analogico tra l’intelletto dell’osservatore e ciò che egli sta guardando […] I componenti della realtà risultano adattarsi reciprocamente in un tutto unico» (p. 285). Con il nuovo mondo ellenistico si manifestarono i limiti della scienza greca. Gli automi di Erone: «miravano solo a far colpo sul grosso pubblico» (p. 379). In quel frangente storico, atomismo lucreziano, stoicismo ed epicureismo furono esempi di religioni scientifiche. Mito e ricerca erano ancora saldati in uno.

  Di fronte alla pervasività della tecno-scienza prodotta dal capitalismo cognitivo, guardare al “panteismo” ellenico può essere d’aiuto. Il volume di de Santillana è, in tale iter, guida preziosa.

Giovanni Sessa

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