Artefatti. Ecco Beloukia, il Drieu che ci mancava

Donato Novellini: nulla è mai certo per il lettore, nemmeno il finale annunciato fin dall’inizio

Drieu

Da poco uscito nella prima traduzione italiana a cura di Marco Settimini per Aspis, Beloukia (1936) romanzo di Pierre Drieu La Rochelle va a coprire un altro tassello mancante riguardo l’opera dello scrittore francese, il quale sembra vivere dalle nostre parti una terza stagione di riscoperta, dopo quella pionieristica degli anni ‘70 e quella certamente meno ideologica dei ‘90. Formato ed immagine Art-Nouveau per la copertina (Edward Okuń, Nuit, 1904) fanno del volumetto un oggetto desiderabile anche esteticamente, piccolo forziere cartaceo di tesori mediorientali; Stenio Solinas in prefazione si premura di svelarne il contenuto, o meglio un retroscena all’epoca scandalistico, sorta di trasposizione esotica dell’avventura amorosa che Drieu ebbe con Christiane Renault, moglie del potente industriale dell’auto.

Ovviamente, almeno per chi abbia in confidenza il peculiare stile romanzesco dell’autore, pure qui le vicende autobiografiche si sovrappongono al racconto, benché in modo più filtrato, meno autoreferenziale d’altrove. Per chi si è immedesimato – narcisisticamente per interposto autore – nei vari Alain, Costant, Gilles o Gille, potrebbe forse risultare meno spontaneo ritrovarsi nella figura di Hassib, in parte per la straniante ambientazione extra-europea (un po’ come ne L’uomo a cavallo, con la sua scenografia boliviana), in parte perché la tormentata figura maschile ha qui una degna controparte femminile e ciò conferisce al romanzo un’inedita dialettica amorosa paritaria, di conseguenza attenuando il tipico soliloquio irrisolto, tormento misogino del solitario, del dandy insoddisfatto perso tra cocottes, accondiscendenti ruffiane, ricche borghesi ed altre (volutamente) indegne comparse.

All’epoca quarantenne, il romanziere e saggista di bell’aspetto in procinto d’inguaiarsi con la politica, probabilmente toccato nel profondo dalla relazione segreta – quindi arcinota in società, ça va sans dire – con M.me Renault, s’inventa un’escursione salgariana nel bel mezzo di una Bagdad in subbuglio tra faide rivali, floreale e speziata, acquosa e stellata capitale immaginifica, fedele allo stereotipo favolistico in parte inventato dal colonialismo vacanziero occidentale, metaforica messinscena araba di ciò che era accaduto d’indicibile nell’ingombrante, salottiera, Parigi. Tra laghetti e palmeti, fughe notturne d’amore, mercati bettole e palazzi dorati, non mancano certo le riflessioni esistenzialiste per gli affezionati solipsisti, quell’ondivago rimuginare tra patetico fatalismo ed afflati eroici, saliscendi fra vocazione artistica d’un poeta guerriero e sacrificale scacco (matto) di sé in politica; aleggia altresì sugli eventi amorosi clandestini una cappa d’impotenza, l’odore acre del sangue nella sconfitta fin dall’inizio mescolato al profumo effimero dei corpi in amplesso, sentenza che nella scrittura di Drieu sembra sempre premeditata e falsata dal beau geste, guidata nel vicolo cieco, come fosse la via di fuga più elegante o meno disonorevole per salvare qualcosa di puro, sempre innominabile dietro tante parole; come se egli fosse alla disperata ricerca di un elemento selvaggio, arcaico per attrazione, violento e brutale avversario col quale duellare alla pari, semmai mostrandosi denudato, una volta sconfitto, inadeguato per troppa delicata eleganza d’animo alle bassezze della vita.

Eppure nelle pagine di Beloukia il nemico non è il vero nemico, e il rivale, legittimo proprietario dell’amata da rapire, quando si manifesta, diventa solo un doppio rozzo del ribelle pretendente, ostacolo più forte solo perché già insediato in una fortezza di potere; al solito per Drieu tendono a formarsi delle trasversalità in mutamento, tutto slitta in onta e gloria di pari passo, ed il tradimento dell’appartenenza partigiana permette all’eroe di trapassare i fatti e le contingenze: la tumultuosa prassi amorosa, il desiderio di assoluto con tutti i suoi logoranti assilli, è più importante di qualsiasi rivoluzione. Hassib, come Drieu, è lacerato tra amore e guerra, ben sapendo che sono le uniche ragioni per stare al mondo, a discapito della politica, della diplomazia, soprattutto dell’umanità viscida dei cortigiani: il rozzo Felsan e il subdolo eunuco Balek, figure speculari nella geometria del romanzo, corroborano le affinità elettive degli amanti, la devozione reciproca a prescindere dagli eventi.

Trasformare l’amante in madre, in crocerossina, piegarla poi a puttana, innalzarla a vestale inarrivabile, trasfigurarla ad eterna musa, accontentarsi d’una serva per poi mistificarla come fece Léon Bloy alla disperata ricerca d’una santa impossibile, in Beloukia Drieu (Hassib) trova invece a far da controcanto all’ego una principessa guerriera, moglie di un uomo potente, madre e amante coraggiosa, forte e bellissima. La relazione passionale tra i due protagonisti eleva la storia ad una dimensione romantica, tragicamente epica data la condizione d’adulterio e le rispettive, inconciliabili, posizioni nell’ordinamento sociale di un immaginario XVIII secolo. In un’infida atmosfera di morbosa sensualità, aggravata da complotti, violenza e vendette, si consuma così l’ineluttabile disegno del classico amore impossibile; solo che quando a tirare le fila dello svolgimento è l’imprevedibile, sempre raffinata, penna di Pierre Drieu La Rochelle, nulla è mai certo per il lettore, nemmeno il finale annunciato fin dall’inizio, tant’è che chiusa l’ultima pagina resta un’impressione d’irresolutezza, di malinconica sospensione, di fatalistica evanescenza.

Donato Novellini

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