Nanni Moretti celebra il cinema e riscrive la storia

“Il sol dell'avvenire” è una specie di manifesto dell'egocentrico regista, tra i pochi in Italia a convincere i critici e a riempire le sale

Prima di tutto un’avvertenza: se Nanni Moretti non vi ha mai convinto, non avete amato “Bianca” o “Palombella rossa” e avete storto il naso davanti alle scene di “Caro diario”, allora non andate al cinema a vedere “Il sol dell’avvenire”, perché il nuovo film del regista romano è una specie di manifesto del morettismo più puro, un concentrato di egocentrismo e autocelebrazione di quello che, volenti o nolenti, resta uno dei pochi cineasti contemporanei italiani in grado di conquistare la critica e riempire le sale.

Alla soglia dei settant’anni, Nanni Moretti sforna un’opera che sembra la summa di tutti i suoi film più famosi e apprezzati e si presenta in grande spolvero nei panni di se stesso, ovvero di un regista che vuole realizzare un lungometraggio sul Pci degli anni Cinquanta e su come la base comunista reagì all’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956. Il vecchio stratagemma del film nel film per parlare anche, e soprattutto, di se stesso e dei problemi coniugali dopo quarant’anni di matrimonio con Margherita Buy (brava, ma che interpreta il solito personaggio “alla Margherita Buy”). Con il guizzo ancor più brillante di inserire un terzo film nel film, cioè il sogno del regista Giovanni di concepire un’ulteriore opera futura, una storia d’amore leggera e brillante ambientata negli anni Ottanta e «piena di belle canzoni italiane». Le canzoni ci sono (Luigi Tenco, Fabrizio De Andrè, Franco Battiato) e il fatto che appartengano a tre grandi autori defunti dà alla narrazione un’ulteriore sfumatura di malinconia.

Come detto il film è un esplicito manifesto del morettismo più integralista, con tanto di citazioni (l’avversione per le scarpe femminili aperte, il gelato e gli antidepressivi, il giro a spasso per Roma non più in Vespa ma con il monopattino, le nuotate in piscina, le canzoni cantate a squarciagola in auto) che rendono volutamente il Moretti del 2023 una specie di caricatura di tutti i Moretti del passato. Tre le scene imperdibili, che di certo passeranno alla storia del cinema morettiano: la prima, quando lui e la produttrice Margherita Buy cercano di farsi finanziare il film da Netflix e si vedono bocciare il progetto perché la piattaforma televisiva «è destinata ad essere vista in 190 Paesi» e il suo film «ha uno slow burner che non esplode». La seconda, quando Giovanni, con il consueto egocentrismo e l’abituale saccenza, interrompe la scena di un film d’azione diretto da un giovane regista (e prodotto dalla moglie) imponendo all’intera troupe una lezione di cinema con dotte citazioni di Kieslowski. Infine il ballo corale degli attori e delle maestranze sulle note di “Voglio vederti danzare” di Battiato in una periferia romana di cartapesta, ricostruita negli studi cinematografici.

“Il sol dell’avvenire” è anche un grande omaggio di Moretti al cinema del passato, si citano “Lola” di Jacques Demy, e “La caccia” di Arthur Penn, il già citato Kieślowski e Fellini, evocato attraverso le immagini de “La dolce vita” e indirettamente nella ricostruzione dell’ambiente circense: una compagnia di trapezisti e clown di Budapest, invitati nel quartiere popolare romano dalla locale sezione del Pci, che dopo l’invasione sovietica non vuole più rientrare in patria. Tra gli attori principali convincono Barbora Bobulova e Silvio Orlando, spiccano la giovane Valentina Romani e il bizzarro Mathieu Amalric, che interpreta il produttore francese che finisce in galera e lascia il regista senza più un centesimo per terminare il film.

Infine, la politica. Perché “Il sol dell’avvenire” è anche un film politico, come è intuibile fin dal titolo. Il “morettismo” di Moretti si spinge sino a modificare la storia, cioè a ipotizzare in modo onirico e tutto sommato sbrigativo una svolta antisovietica del Pci già nel 1956, sull’onda della protesta dei borgatari comunisti che si schierano dalla parte degli insorti di Budapest e impongono a Togliatti lo “strappo” con Mosca. L’ironica chiosa finale prima dei titoli di coda non basta a giustificare la forzatura, così come non è sufficiente strappare l’effigie di Stalin dai locali della sezione comunista – «È un dittatore e nel mio film i dittatori non ce li voglio», dice il regista – per rimodellare la memoria a proprio uso e consumo. Soprattutto se i militanti comunisti degli anni Cinquanta erano molto più simili ai “trinariciuti” staliniani di Giovannino Guareschi che non ai presunti “poveri ma belli” dell’opera morettiana. E i dirigenti del Pci togliattiano, lungi dal manifestare cedimenti buonisti cinematografici, bollavano come controrivoluzionari gli insorti di Budapest e plaudivano ai massacri dei carri armati di Mosca. A partire dal futuro pluripresidente della Repubblica italiana Giorgio Napolitano.

Il film, comunque godibile e con alcune schegge di genialità morettiana, si chiude con la felliniana parata degli interpreti in groppa agli elefanti del circo, alla quale prendono parte anche moltissimi attori dei vecchi film del regista romano: Jasmine Trinca, Elio De Capitani, Alba Rohrwacher, Renato Carpentieri, Mariella Valentini, Giulia Lazzarini, Fabio Traversa. Con un’assenza evidente e tutt’altro che secondaria: Laura Morante, protagonista di “Sogni d’oro” (1981) e “Bianca” (1984), esclusa, pare, per vecchie ruggini mai eliminate.

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Giorgio Ballario

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