Artefatti. La montagna disincantata di Alexandre Vialatte

Donato Novellini: "Prontuario umano avverso alle filosofie, agli astratti teoremi, giardinaggio letterario degno d’un Flâneur"

Nell’ambito dell’editoria indipendente, o meglio autonoma quantomeno rispetto ai pachidermici, enfiati nullismi di quella maggiore coi suoi muffiti rituali di rappresentanza, spicca anche formalmente l’originale idea di libro proposta da Prehistorica Editore – realtà viva da alcuni anni, di stanza presso le sponde veronesi del Benaco – sulla quale vale la pena spendere qualche parola. A discapito della stravagante ragione sociale non si tratta di un supplemento cartaceo a Superquark o di qualche altro siparietto divulgativo sui dinosauri firmato Angela ed emuli, bensì di un’eccentrica dimora, non di meno ambiziosa, ospitante letteratura francese tendenzialmente inclassificabile, orgogliosamente minore, più precisamente seguendo Kafka minoritaire; non sfugge a catalogo il vistoso Vite di coppia a firma Joris-Karl Huysmans, più d’altro nume tutelare di un lavoro di ricerca che procede oltre, non trascurando autori viventi: Jean-Marc Aubert, Éric Chevillard, Pierre Jourde tra gli altri.

Si prenda ad esempio l’agile volumetto Cronache dalla montagna – Di lupi, foche ed altre cose singolari di Alexandre Vialatte, (traduttore dal tedesco di Nietzsche, Kafka, Goethe, Brecht, Mann, Hofmannsthal, Benn) per intendere l’antifona stilistica di Prehistorica: qualcosa che profuma di elegante sprezzatura e libertà di scrittura, tuttavia nel caso specifico confinata paradossalmente sulle pagine locali de “La Montagne”, storico giornale della regione dell’Alvernia. Testi non convenzionali, surreali, comici, accuratamente strampalati, alieni, ricchi di cortocircuiti logici, totalmente avulsi da qualsivoglia codice di corporazione alpinistica e dalla conseguente narrazione tecnica. Ciò, si converrà, era e forse è ancora oggi molto francese. Parigi avida catalizzatrice, e Gallimard per dire, si sono sempre nutrite di ciò che proviene dalla provincia profonda – come, per altro verso, vini e formaggi, andando per stereotipi – dandone adeguata risonanza ben più di quanto accada in Italia, fiaccata invece da frusti canovacci metropolitani, da libri astratti ambientati a Roma e periferia, Milano, Napoli. E Rovigo? Macerata? Viterbo? Trani? Gorizia? Oristano? Crotone? Enna? La Lunigiana? Il Monferrato? Macchiette localistiche destinate a restare tali. Luoghi comuni circoscritti e soccombenti, folklore divorato dai nuovi linguaggi imbastarditi coll’inglese.

Alexandre Vialatte, soprattutto nel secondo volume delle cronache – Di vette inarrivabili e mezzi straordinari – non trascura affatto la montagna che lo ospita, semmai cullandosene senza sforzo la trasfigura in atavico retroterra, facendo del localismo un’iperbole sensoriale, il rigurgito atmosferico di un autore antimoderno:

“La verità è che non si era mai vista una simile docilità nelle masse. Perché non ci sono mai stati tanti mezzi per condizionarle come ci pare. L’istruzione stessa ha le sue belle colpe consentendo a tutti gli uomini di leggere lo stesso giornale. L’analfabeta era obbligato ad avere le proprie idee, a discutere animosamente, giudicare, decidere da sé. Oggi crede alla brochure informativa”.

Oppure:

“Non c’è nulla di meglio che isolare un grano di caviale, un pisello o un uovo di gallina, e occuparsi solo di questo per non credere più alla sua esistenza”.

La sua scrittura d’ascendenza surrealista sferza i flaccidi luoghi comuni e la maniera – sovente cavalcandoli con sarcasmo fintamente ingenuo, come un esproprio di banalità da sovvertire in criptiche concatenazioni ulteriori – per cavarne fuori qualcosa di somigliante allo stupore o allo sconcerto. Meraviglia di parole libere fluttuanti, epperò sempre serrate dalla formula rituale (sottilmente umoristica): “Ed è così che Allah è grande”. Prontuario umano avverso alle filosofie, agli astratti teoremi, qualcosa che odora d’animale vegetale minerale acquatico, giardinaggio letterario in qualche modo degno d’un Flâneur. Dal basso Vialatte costruisce la sua personale enciclopedia di trascurabili nozioni, bestiario onnisciente quanto microcosmico, creando di fatto un mondo d’incastri idealmente – ma pure filosoficamente, per paradosso – assai godibile.

Pierre Jourde, nella postfazione alle Cronache , scrive: “Ma se Vialatte è affascinato dalla buccia, se decide di pensare la buccia, non è per comprenderla ma, frase dopo frase, per non comprenderla. Pensare per non comprendere: operare delle sottrazioni d’oggetto, travestirlo, metamorfosarlo, truccarlo, manipolarlo, per non finire di stupirsene”. Difatti, citando proprio Vialatte: “Perché alla fine si deve scegliere, di comprendere o meravigliarsi. E il primo bisogno dell’uomo è di non comprendere. La creazione è mozzafiato”. A proposito di Jourde, presente a catalogo Prehistorica con quattro volumi, si segnala per umoristica raffinatezza Il Tibet in tre semplici passi, cronaca disincantata di tre spedizioni nelle valli dello Zanskar, in un’epoca di bussole guaste e vaghe cartine geografiche. A discapito di un titolo ambiguo di gusto manualistico, il libro propone un approccio al viaggio credibilmente avventuroso, alternativo sia ai tecnicismi delle moderne imprese escursionistiche, che al facile esotismo travisato ad uso occidentale; l’Oriente è raccontato evitando accuratamente trappole retoriche e luoghi comuni, piuttosto prediligendo una narrazione vertiginosa, rocambolesca, dal sapore autentico anche nei passaggi più visionari, consegnando di fatto, pure al lettore poco interessato alla letteratura di viaggio, sensazioni indelebili, l’impressione di una partecipazione diretta agli eventi in corso.

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Donato Novellini

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