Si prenda ad esempio l’agile volumetto Cronache dalla montagna – Di lupi, foche ed altre cose singolari di Alexandre Vialatte, (traduttore dal tedesco di Nietzsche, Kafka, Goethe, Brecht, Mann, Hofmannsthal, Benn) per intendere l’antifona stilistica di Prehistorica: qualcosa che profuma di elegante sprezzatura e libertà di scrittura, tuttavia nel caso specifico confinata paradossalmente sulle pagine locali de “La Montagne”, storico giornale della regione dell’Alvernia. Testi non convenzionali, surreali, comici, accuratamente strampalati, alieni, ricchi di cortocircuiti logici, totalmente avulsi da qualsivoglia codice di corporazione alpinistica e dalla conseguente narrazione tecnica. Ciò, si converrà, era e forse è ancora oggi molto francese. Parigi avida catalizzatrice, e Gallimard per dire, si sono sempre nutrite di ciò che proviene dalla provincia profonda – come, per altro verso, vini e formaggi, andando per stereotipi – dandone adeguata risonanza ben più di quanto accada in Italia, fiaccata invece da frusti canovacci metropolitani, da libri astratti ambientati a Roma e periferia, Milano, Napoli. E Rovigo? Macerata? Viterbo? Trani? Gorizia? Oristano? Crotone? Enna? La Lunigiana? Il Monferrato? Macchiette localistiche destinate a restare tali. Luoghi comuni circoscritti e soccombenti, folklore divorato dai nuovi linguaggi imbastarditi coll’inglese.
Alexandre Vialatte, soprattutto nel secondo volume delle cronache – Di vette inarrivabili e mezzi straordinari – non trascura affatto la montagna che lo ospita, semmai cullandosene senza sforzo la trasfigura in atavico retroterra, facendo del localismo un’iperbole sensoriale, il rigurgito atmosferico di un autore antimoderno:
“La verità è che non si era mai vista una simile docilità nelle masse. Perché non ci sono mai stati tanti mezzi per condizionarle come ci pare. L’istruzione stessa ha le sue belle colpe consentendo a tutti gli uomini di leggere lo stesso giornale. L’analfabeta era obbligato ad avere le proprie idee, a discutere animosamente, giudicare, decidere da sé. Oggi crede alla brochure informativa”.
Oppure:
“Non c’è nulla di meglio che isolare un grano di caviale, un pisello o un uovo di gallina, e occuparsi solo di questo per non credere più alla sua esistenza”.
La sua scrittura d’ascendenza surrealista sferza i flaccidi luoghi comuni e la maniera – sovente cavalcandoli con sarcasmo fintamente ingenuo, come un esproprio di banalità da sovvertire in criptiche concatenazioni ulteriori – per cavarne fuori qualcosa di somigliante allo stupore o allo sconcerto. Meraviglia di parole libere fluttuanti, epperò sempre serrate dalla formula rituale (sottilmente umoristica): “Ed è così che Allah è grande”. Prontuario umano avverso alle filosofie, agli astratti teoremi, qualcosa che odora d’animale vegetale minerale acquatico, giardinaggio letterario in qualche modo degno d’un Flâneur. Dal basso Vialatte costruisce la sua personale enciclopedia di trascurabili nozioni, bestiario onnisciente quanto microcosmico, creando di fatto un mondo d’incastri idealmente – ma pure filosoficamente, per paradosso – assai godibile.