La storia dei Gesuiti: 250 anni fa la soppressione della Compagnia del Gesù

Vari ambienti cattolici si resero poi conto che la soppressione dei gesuiti era stato un errore e si adoperarono per il ripristino della Compagnia di Gesù che, come detto, avvenne con Pio VII nel 1814, tornando i gesuiti i più fedeli sostenitori del papato

Sant'Ignazio di Loyola

Il miracolo di Sant’Ignazio in un quadro di Rubens (Kunsthistorisches Museum, Vienna)

Non proprio un anniversario da ricordare in pompa magna, soprattutto per i gesuiti e per Papa Francesco, primo pontefice gesuita, ma tant’è… Ricordiamolo, essendo una data comunque assai importante. Naturalmente, i gesuiti preferiscono rammentare i 200 anni dalla seconda “rifondazione”, come han fatto nel 2014. Infatti, il 7 agosto del 1814 Papa Pio VII Chiaramonti, alla caduta di Napoleone, dopo aver celebrato la messa nella chiesa del Gesù, il principale tempio dei gesuiti a Roma, sull’altare di sant’Ignazio di Loyola loro fondatore, con la bolla Sollicitudo omnium ecclesiarum (La preoccupazione per tutte le Chiese) decretava la restaurazione universale della Compagnia di Gesù. Un altro Papa, Clemente XIV, quarant’anni prima, nel 1773, l’aveva soppressa, dietro pressione, ritengono alcuni storici, dei giansenisti e degli illuministi. In realtà era lo Stato moderno – in qualche modo consacrato a Westfalia nel 1648 – a non sopportare più le pretese dell’ ‘ultramontanesimo’, che sosteneva la superiorità dei papi sui Sovrani e sui Concili, anche in questioni temporali, simboleggiato dai gesuiti e dal loro potere politico, culturale ed economico. Clemente XIV, Giovanni Vincenzo Ganganelli (Santarcangelo di Romagna, 1705 – Roma, 1774), papa dal 28 maggio 1769 alla morte, apparteneva all’Ordine dei Frati Minori Conventuali. Era un francescano, assieme ai domenicani l’ordine che forse più si era scontrato con la Compagnia di Gesù. Fu anche l’ultimo pontefice francescano.
Dopo aver resistito per quattro anni alle presioni delle monarchie borboniche, perso anche l’appoggio dell’Austria di Maria Teresa, il 21 luglio 1773 il pontefice emise la bolla Dominus ac Redemptor (Signore e Redentore) disponendo lo scioglimento della Compagnia. La soppressione fu celebrata dalle classi dominanti, che paradossalmente erano quasi sempre state educate proprio nei collegi gesuitici, come un’affermazione della ragione e del riformismo. In realtà fu una vittoria dell’assolutismo sul papato, oltre che dei settori ‘rigoristi’ della Chiesa, avversari del ‘lassismo’ gesuitico in campo etico, del cattolicesimo popolare e devozionistico propagandato, col corredo di una liturgia eminentemente ‘consolatoria’. Alla Papa Francesco, per intenderci, storicizzando, alla sua Teología del Pueblo, sbocciata in Argentina negli anni ’70, differente dalla Teología de la Liberación rifiutando la centralità della lotta di classe mutuata dal marxismo. In qualche modo ancor meno credibile, in quanto, come tutti i populismi pauperistici, finisce con amare e voler conservare ciò che dovrebbe, invece, contribuire a cambiare radicalmente! ‘Il pastore deve avere lo stesso odore delle pecore’ è, infatti, il discutibile messaggio ripetuto da Bergoglio. Un sovrano assoluto nelle faccende temporali e spirituali, condizione ch’egli non intende certo limitare, che parla molto di ‘sinodi’ e ‘sinodismo’, quali organismi più aperti, ma essenzialmente consultivi, riservandosi ogni decisione. Un po’ come i Consigli della Corona nell’Ancien Régime.

Íñigo López de Loyola, nacque nella casa-torre di Loyola, nella provincia basca di Guipúzcoa, il 23 ottobre 1491. Era il minore della famiglia di tredici figli di Beltrán Yáñez de Oñaz y Loyola e Marina Sáenz de Licona y Balda. Nobile, figlio e fratello di uomini d’armi, Iñigo, rimasto orfano dei genitori, nel 1506 venne mandato alla corte del ministro delle finanze del re Fernando il Cattolico, Giovanni Velázquez de Cuéllar, per ricevere un’educazione cavalleresca e religiosa. Aveva ventisei anni quando, abbandonata la famiglia Velazquez, caduta in disgrazia, Íñigo raggiunse il palazzo di Antonio Manrique de Lara, viceré di Navarra, a Pamplona, per rimanere per tre anni come cavaliere armato al suo servizio. Alla partenza (1516) del giovanissimo re Carlo I per la Germania e la corona imperiale (poi Carlo V), si diffusero moti di ribellione per le città ispaniche. Antonio Manrique, fedele al re, fu uno dei condottieri che diedero battaglia ai rivoltosi a fianco dei propri figli e dello stesso Íñigo, che partecipò e vinse l’assedio alla città ribelle di Najera. Don Manrique incaricò il fedele Íñigo della missione speciale di pacificare la provincia di Guipúzcoa: compito che egli assolse nel migliore dei modi. Un incarico più arduo lo attendeva: la fortezza di Pamplona era in pericolo e presto sarebbe crollata. Non solo i nemici di don Manrique minacciavano la cittadina, ma lo stesso re francese Francesco I, il quale, approfittando della situazione, aveva progettato un attacco contro la Navarra. La fortezza era priva di forze militari perché il duca se n’era privato per soccorrere il suo sovrano. Enrico d’Albret, pretendente al trono di Navarra, appoggiato da Francesco I, piombava sulla fortezza con ben dodicimila fanti, ottocento lancieri e ventinove pezzi di artiglieria. A Pamplona non era rimasto che un migliaio di soldati. Nel 1521 la città cadde in mano al nemico, mentre Íñigo e i suoi rimasero a difendere l’ultimo baluardo della città, rifiutando le condizioni poste per la resa. Il giorno dopo, messa in campo l’artiglieria, durante il bombardamento una palla colpì la sua gamba destra, fratturandola in più parti. Dopo quindici giorni di degenza a Pamplona, Íñigo venne trasportato in barella alla casa paterna. Dopo dolorosissime operazioni, stoicamente sopportate, egli poté ristabilirsi, pur rimanendo claudicante per il resto della vita. Nei giorni in cui fu costretto all’immobilità lesse la Vita Christi, del certosino Landolfo di Sassonia, ed il Flos sanctorum, le celebri vite dei santi redatte dal domenicano Jacopo da Varazze.

Intanto divampava per l’Europa la Riforma protestante, dal 1517, allorchè Martin Lutero, monaco agostiniano, affisse le sue famose 95 tesi alla porta del duomo di Wittemberg, in Sassonia. Rapidamente il movimento iniziato in Germania si diversificò. Apparvero altri riformatori, tra i quali Ulrico Zwingli e Giovanni Calvino. In Inghilterra re Enrico VIII separò la Chiesa locale da Roma, dando vita alla Chiesa Anglicana. La Francia fu allora teatro di una sanguinosa e lunga guerra tra protestanti ugonotti e cattolici. La Chiesa di Roma, scossa ma sorretta dalle Monarchie di Spagna, Portogallo, Austria, intraprese anch’essa una serie di azioni, poi conosciute come Controriforma, che confluirono successivamente nelle decisioni del Concilio di Trento (1545-1563). Che avrebbe dovuto mettere fine alla frattura tra Cattolici e Protestanti, ma che si risolse in una serie di rigide affermazioni (il ‘Credo’) con cui si sconfessarono le teorie dei riformatori. Gli effetti della Riforma furono dirompenti in tutti gli aspetti della vita europea, determinando la rottura dell’unità del corpus cristiano.

Íñigo cominciò così il suo processo di conversione dove trasferì l’intento, ormai deluso, di un’ambiziosa carriera militare all’impegno religioso. Cominciò a dedicarsi alla preghiera, alla lettura di testi sacri, alla meditazione, scrivendo appunti che avrebbero poi dato vita ai suoi famosi Esercizi spirituali. Sognava di partire pellegrino per Gerusalemme. Si recò, intanto, pellegrino al santuario di Montserrat dove, durante una ‘veglia militare’ dedicata alla Madonna, come un antico cavaliere appese la sua vestitura militare davanti a un’immagine della Vergine; da lì, nel marzo 1522, entrò nel monastero di Manresa, in Catalogna, ove assunse il nuovo nome di Ignazio. Nel 1523 egli raggiunse Venezia e si imbarcò per Gerusalemme, dove visitò i Luoghi Santi. Dovette però abbandonare il progetto di stabilirsi in Palestina per il divieto di soggiorno impostogli dai frati francescani della Custodia di Terra Santa. Tornato in Spagna, e desiderando abbracciare il sacerdozio, Ignazio riprese gli studi a Barcellona, poi ad Alcalá dove, per il suo misticismo, fu sospettato di essere un alumbrado (mistici che predicavano l’abbandono alla ispirazione divina, la libera interpretazione delle Scritture, contro i dogmi, l’autorità della Chiesa e della gerarchia e, quindi, considerati eretici) e tenuto in carcere dall’Inquisizione per quarantadue giorni. Egli si trasferì a Salamanca, poi a Parigi, dove frequentò l’Università per approfondire le sue conoscenze teologiche. In quel periodo progettò di fondare un nuovo Ordine religioso che «non si dedicasse, come gli altri alla preghiera e alla santificazione dei suoi componenti ma, libero da ogni impaccio di regole claustrali, esercitasse praticamente il cristianesimo, servendo ai grandi scopi della Chiesa» (cfr. Antonio Desideri, Storia e storiografia, II, G. D’Anna, Messina-Firenze, 1977).
Nel 1534 Ignazio ed altri sei studenti si legarono reciprocamente con un voto di povertà,
castità, obbedienza e fondando un Ordine chiamato, con un termine d’origine castrense, la Compagnia di Gesù: per eseguire lavoro missionario o andare incondizionatamente in qualsiasi luogo il Papa avesse ordinato loro. Compare un quarto voto che si aggiunge ai soliti tre monacali: quello della assoluta obbedienza al papa, che richiama il valore militare della disciplina. Nel 1537 Ignazio ed i suoi seguaci si recarono in Italia per ottenere l’approvazione papale per il loro ordine. Paolo III Farnese li lodò e consentì loro di ricevere l’ordinazione sacerdotale.
Il Papato era allora debole: nel 1527 aveva dovuto sopportare l’umiliazione del ‘Sacco di Roma’, ordinato dall’imperatore cattolico Carlo V. Una congregazione di cardinali si dimostrò favorevole al progetto di Ignazio ed il Pontefice confermò l’ordine con la bolla Regimini militantis ecclesiae (Al governo della Chiesa militante) nel 1540. L’ultima e definitiva approvazione della Compagnia di Gesù fu decisa nel 1550 con la bolla Exposcit debitum (Il dovere richiede) di Giulio III Ciocchi del Monte. Ignazio, eletto primo Preposito Generale, inviò i suoi compagni come missionari in giro per il mondo per creare scuole, istituti, collegi, seminari, penetrando ed evangelizzando attraverso la predica, la confessione, l’istruzione in tutti gli strati sociali, non classista, privilegiando, ovviamente, l’aristocrazia dominante. Sovente i sovrani ebbero per padri spirituali e confessori i gesuiti, che ebbero modo d’ influire sulle condotte politiche dei governi e di pagare altresì il prezzo di governi inetti e sovrani impopolari, spesso considerati loro creature.
Nel 1548 vennero stampati per la prima volta gli Esercizi spirituali, per i quali, tuttavia, Ignazio venne condotto davanti al tribunale dell’Inquisizione, per poi essere rilasciato. Lo stesso anno egli fondò a Messina il primo Collegio, prototipo di tutti gli altri collegi che la Compagnia fonderà con successo nel mondo facendo dell’insegnamento la marca distintiva dell’Ordine. Ignazio scrisse poi le Costituzioni, adottate nel 1554, che creavano un’organizzazione monocratica e disponevano un’abnegazione ed un’obbedienza docile, assoluta al romano Pontefice ed ai superiori. Celebre la consegna perinde ac cadaver (lasciati guidare come un cadavere). Il fondatore della Compagnia morì il 31 luglio 1556, all’età di 65 anni. Venne sepolto nella chiesa di Santa Maria della Strada a Roma e canonizzato nel 1622. Nelle Costituzioni Ignazio elaborò la Radio atque institutio studiorum Societatis Iesu (piano di studi), che rimarrà invariata fino al 1832. Nel testo sono esposti i principi fondamentali dell’organizzazione delle scuole, delle classi, dei contenuti, della didattica: dalle secondarie all’ Università.
I gesuiti, pur emettendo i voti di povertà, castità, obbedienza, e pur vivendo in comunità sotto la direzione di un superiore, non erano dei monaci: non avendo il “coro” (l’obbligo di recitare in comune l’ufficio divino), non vivendo in monasteri (come i benedettini), né in conventi (come i domenicani ed i francescani), ma in “case”. Essi nacquero come un gruppo di preti, per svolgere un ministero sacerdotale: predicare la Parola di Dio, insegnare, confessare, visitare ammalati e carcerati. Limitata agli uomini, come gli eserciti, al contrario di altri Ordini.
Il binomio scuola-missione, attuato anche nel Centro-Europa lacerato dalla riforma protestante e poi dalle guerre di religione, contribuì assai affinché il cattolicesimo non fosse spazzato via. Fu così che la Polonia rimase cattolica, praticamente ‘riconquistata’ dal Nunzio Apostolico Antonio Possevino, gesuita. Grazie (o per colpa, dipende dai punti di vista) all’azione dei gesuiti, più che di altri Ordini, la controriforma (o riforma cattolica, secondo Paolo Prodi), la difesa del Cattolicesimo romano, ebbero altresì un carattere piuttosto italiano, affrancando la Chiesa stessa dal soffocante abbraccio della Spagna e degli Asburgo. I gesuiti diedero un apporto determinante, incontestabile alla controriforma, ai suoi aspetti positivi, almeno visti dalla Santa Sede. Tramite il loro zelo essi diverranno, in pratica, i custodi della dottrina, suscitando approvazioni, gelosie (nel clero secolare, soprattutto) ed opposizioni. Organizzata in modo efficiente, militare, con ‘professi’ (padri) e ‘coadiutori’ (fratelli), utilizzando al meglio le risorse umane, la Compagnia di Gesù crebbe rapidamente, appoggiata dai governi, che in essa scorsero una difesa. In pochi decenni i gesuiti erano oltre diecimila, configurando una realtà complessa. C’è, peraltro, una costante nella bimillenaria storia della Chiesa ed è l’apparizione di grandi Ordini in epoche diverse, dai Benedettini ai Domenicani, dal Francescani ai Gesuiti, dai Salesiani all’Opus Dei, con le loro specificità poste al servizio della Chiesa stessa.
(La bibliografia sull’argomento è vastissima. In varie lingue. Per un primo approccio cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/ignazio-di-loyola-santo; https://www.jesuits.global/it/2022/03/23/la-compagnia-di-gesu-in-cifre-edizione-2022; https://it.wikipedia.org/wiki/Compagnia_di_Ges%C3%B9; https://it.wikipedia.org/wiki/Soppressione_della_Compagnia_di_Ges%C3%B9; La nuova bussola quotidiana in https://lanuovabq.it/it/gesuiti-200-annidopo-la-secondarifondazione;
https://www.laciviltacattolica.it/articolo/liberare-i-cuori-dallodio-papa-francesco-incontra;
https://it.wikipedia.org/wiki/Ignazio_di_Loyola;https://it.wikipedia.org/wiki/Soppressione_della_Compagnia;
https://www.lidentitadiclio.com/i-missionari-gesuiti-in-cina-nel-xvii-xviii-secolo-e-il-confucianesimo).

La ‘Controversia dei riti cinesi’ fu un duro banco di prova per la Compagnia e durò per circa un secolo e mezzo. Una celebre diatriba teologica sorta sotto il pontificato di papa Gregorio XV Ludovisi agli inizi del Seicento. Contemporanea alla ‘Questione dei riti malabarici’, che interessò l’India, sorse in occasione dei viaggi che gruppi di missionari occidentali compirono in Estremo oriente con l’obiettivo di evangelizzare quei popoli. Fu il Visitatore gesuita padre Alessandro Valignano (Chieti, 1539 – Macao, 1606) inviato in Estremo Oriente nel 1573, a teorizzare il modello di inculturazione per raggiungere lo scopo, il primo ad adottarlo nelle Indie e Giappone ed a diffonderlo tra i missionari in Asia col suo “Manuale per i missionari del Giappone”. Il problema di fondo era la difficoltà ad adattare i princìpi cristiani alla civiltà delle diverse nazioni. La questione scoppiò con grande evidenza anche fuori dalla Compagnia, quando arrivarono in Cina i primi missionari domenicani e francescani nel 1630. Nel corso del tempo si erano venuti a creare due modi diversi di agire tra i missionari, dettati da due modelità diverse di intendere il rapporto tra la religione cristiana cattolica e la cultura locale.
Da una parte c’era chi, come i missionari gesuiti, intendeva conciliare le due culture, permettendo ai neo-convertiti di continuare ad esercitare il culto dei morti secondo le modalità tipiche della religione e cultura cinese, in quanto considerati delle pratiche civili per nulla in contrasto con la dottrina cattolica, ed assistere ai riti stagionali in onore del Cielo, che erano integrati nel sistema confuciano. Dall’altra c’era chi, come i missionari francescani e domenicani, intendeva, al contrario, vietare ai cinesi convertiti queste pratiche, considerate espressione di un’altra religiosità, diversa e preesistente, e quindi in contrasto con il culto del Dio dei cristiani. La posizione dei gesuiti era dettata non solo dall’idea che i missionari dovessero mantenere un atteggiamento tollerante e moderato nei confronti di culture plurimillenarie, per favorire la diffusione del cristianesimo nell’area, ma anche dalla convinzione che la proibizione di queste pratiche potesse compromettere l’adesione di nobili e letterati cinesi allo stesso. La posizione di francescani e domenicani, invece, si basava sulla convinzione che il cristianesimo andasse definito coerentemente in Cina, così come in Europa, e che i cinesi che sceglievano di convertirsi dovessero abbandonare gli antichi riti, considerati espressione di una religiosità alternativa a quella cristiana. La ‘Questione dei riti cinesi’ proseguì ancora per diversi anni fino a che venne posta la parola fine nel 1742 con la bolla Ex quo singulari di papa Benedetto XIV Lambertini, con la quale si bandivano definitivamente tali riti, si obbligavano i missionari ad un giuramento di fedeltà, si proibiva ogni ulteriore discussione sull’argomento. Nel 1935 Propaganda Fide riaprì la questione e chiese ai Vicari Apostolici in Cina di fornire informazioni sull’identità di quei Riti. I Vicari ottennero dal governo fantoccio del Manchukuo e poi dal Governo cinese, la “garanzia” dell’essenza “civile” dei riti controversi. Sulla base di tale garanzia venne emanata nel dicembre 1939 un’ Istruzione di Propaganda Fide, approvata da Papa Pio XII Pacelli, che autorizzava i cattolici cinesi a partecipare a quei riti ed aboliva il giuramento per i missionari, rimasto in vigore dal 1742. Era, in qualche modo, apprestato il terreno alla geopolitica vaticana d’oggi, in verità già iniziata da Giovanni Paolo II con l’Esortazione Apostolica Ecclesia in Asia del 1997. Papa Bergoglio vuole andare ad Oriente, in Cina soprattutto, ‘ricucire’ con Pechino, conscio che in Occidente il cristianesimo si stia inesorabilmente esaurendo; predicando una religione ‘abramitica’ che serva da minimo comun denominatore valido, teoricamente, per tutte le nazioni del mondo, senza sottilizzare troppo su democrazia e diritti individuali, che vengono dopo non ben precisati ‘diritti fondamentali dell’uomo’. Ritrovare, in sostanza, una ‘purezza evangelica’ scevra dall’ancoraggio col mondo classico, con l’eredità greco-romana. Per salvare il salvabile.
Perciò, il Documento “Sulla Fratellanza Umana per la Pace Mondiale e la Convivenza Comune”, sottoscritto da Papa Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb, il 4 febbraio 2019, ad Abu Dhabi. Il Documento sancisce che le tre religioni monoteiste, pur mantenendo il loro credo religioso e la propria identità, possono coesistere su un unico spazio, ossia su un unico territorio, facendo del dialogo il fulcro della loro coesistenza pacifica. La Casa della Famiglia Abramitica è stata inaugurata ad Abu Dhabi a febbraio 2023. Essa racchiude, in un unico sito, una Moschea, una Chiesa ed una Sinagoga, edificate per vivere accanto. Molte sottolineature, da parte di Papa Bergoglio, il più interessato a cercare partner forti nel dialogo interreligioso (come lo sono, pur in modo assai differente, islam ed ebraismo), sulla coesistenza, il confronto pacifico, la condivisione dei beni spirituali e la possibilità di promuovere attraverso le buone relazioni, tra persone di fedi diverse, una società più umana e fraterna.
(Cfr. Greta Cristini, 9.11.2021, in https://lavocedinewyork.com/lifestyles/religioni/2021/11/09/piero-schiavazzi-su-biden-in-vaticano-il-papa-ha-feeling-con-lui-ma-guarda-allasia).

Più agevole, data la differente situazione culturale locale, fu l’azione intrapresa durante il generalato di Claudio Acquaviva d’Aragona (1581-1615) di Atri, Abruzzo, che constituì l’inizio della organizzazione sudamericana della Compagnia di Gesù. Alla ridistribuzione territoriale delle Province dell’Ordine seguì un forte impulso all’attività missionaria e si definì uno schema decisionario che lasciava una grande autonomia ai gesuiti negli affari locali. Detta prassi s’inseriva nel quadro di una cultura devozionale che cercava il consenso indigeno esibendo i simboli paradigmatici della spiritualità ignaziana ed elementi delle tradizioni locali, insieme nei riti. Nelle tre decadi del generalato di Claudio Acquaviva, l’Ordine acquisì un posto preponderante, talora esclusivo, nella organizzazione della società coloniale e delle politiche indigene.
Il film drammatico britannico Mission (The Mission), del 1986, diretto da Roland Joffé, scritto da Robert Bolt, cast con Robert De Niro, Jeremy Irons, Ray McAnally, Aidan Quinn, Cherie Lunghi e Liam Neeson – con lo sfondo spettacolare delle Cataratas de Iguazú – coronato da grande successo, rivelò al gran pubblico l’esistenza delle Riduzioni gesuitiche del Paraguay.
Nel 1606 Filippo III di Spagna ordinò al governatore di Río de la Plata, Fernando Árias de Saavedra, di non sottomettere gli indigeni con la forza delle armi, ma attraverso la catechesi svolta dai gesuiti. Così nel 1607 nacque la Provincia del Paraguay, il cui territorio comprendeva l’attuale Paraguay, la parte orientale della Bolivia, il nord-est argentino, l’Uruguay, il sud-ovest del Brasile, allora governato dagli spagnoli. Invitati dal vescovo di Tucumán, i missionari si trasferirono all’interno del continente ed assieme ad altri religiosi fondarono nel 1609 un collegio ad Asunción. Le Riduzioni gesuitiche erano piccoli nuclei urbani, secondo le strutture delle missioni della Compagnia di Gesù, frutto di una strategia missionaria consistente nella realizzazione di centri per l’evangelizzazione delle popolazioni indigene. Esse mantenevano i nomi dei centri o villaggi indigeni organizzati ed amministrati dai gesuiti nel Nuovo Mondo. Il fine che si prefiggevano era di civilizzare ed evangelizzare; era anche prevista la fondazione di collegi e conventi. E persino di opere di difesa contro i cacciatori di schiavi, i paulisti bandeirantes. Lo scopo precipuo delle Missioni fu quello di creare una società con i benefici e le caratteristiche della cosiddetta società cristiana europea, però priva dei suoi vizi ed aspetti negativi. In effetti, quell’esperienza viene inclusa tra le utopie: un alto grado di sviluppo tecnico insegnato da efficienti ed abili padri. Si scrisse poi dell’ ‘utopia infranta delle Riduzioni’. Riduzioni, sintesi e simbolo del tentativo di risolvere il massimo problema che ancor si dibatte: come creare rapporti di fraternità ed evangelizzare i popoli primitivi arretrati, aiutandoli ad evolversi verso il mondo moderno – ma non delegando quasi nessun potere – salvando la loro lingua e cultura (tradizione, usi). I gesuiti insegnavano, ordinavano, punivano, con moderazione, come con bambini docili e in fondo buoni.
La fine delle Riduzioni fu determinata non tanto dalle dicerie sui gesuiti (le immense ricchezze), ma dalla rivalità tra spagnoli e portoghesi. Infatti, nel 1750, la lite tra Spagna e Portogallo sui limiti del loro territorio fu risolta dal Trattato di Madrid: i territori ad est del fiume Uruguay (le sette Reducciones del Paraguay), passavano al dominio portoghese in cambio della Colonia del Sacramento (Uruguay) e delle Filippine. Fu allora che gli indigeni furono costretti ad abbandonare le Missioni. Tuttavia né i religiosi né i guaraní accettarono passivamente il trattato. I gesuiti offrirono al re di Spagna tributi e ricchezze per cercare di mantenere intatta quella colonizzazione basata su valori religiosi e culturali. Con il Portogallo non fu possibile nessun accordo per i rapporti deteriorati tra la Compagnia ed il Regno guidato dal marchese di Pombal. Ma fu la fine. Cruenta. Con la soppressione della Compagnia di Gesù, gli indigeni (ai quali i padri avevano confezionato una lingua scritta comune alle varie tribù, il guaraní, oggi parlata da milioni di persone e seconda lingua ufficiale del Paraguay) rapidamente si dispersero, la foresta inghiotti chiese, case, opifici. Senza una guida, l’innovazione portata non ebbe alcuna continuità.
Come si giunse alla soppressione del 1773? Le cause sono molte ed ardue da sintetizzare. Dalla metà del XVIII secolo la Compagnia aveva accresciuto potere e reputazione in Europa, compiendo operazioni politiche e soprattutto economiche su vasta scala. I gesuiti erano giudicati dai loro oppositori troppo influenti nelle varie Corti e con forti interessi ‘ultramontani’. Molti monarchi europei progressivamente si preoccuparono per le interferenze politiche e per il condizionamento economico che i gesuiti mostravano. Un’espulsione dell’Ordine dai loro domini avrebbe acquietato gli animi, lusingato gli intellettuali, restituito agli Stati le ricchezze accumulate dalla Compagnia. All’interno del mondo cattolico nel ‘600 acquisì poi autorevolezza la corrente giansenista (da Giansenio, vescovo di Ypres in Belgio), che proponeva una riforma della Chiesa in senso rigorista, elitario e vedeva nei gesuiti i fautori di un cattolicesimo facile, devozionistico, lassista nella morale. Avanzava intanto l’illuminismo, con la sua visione razionalistica, con la sua ostilità al papato e con la volontà di riforma della società, nell’intento di conferire più poteri allo Stato, attribuendogli controlli anche sulla vita della Chiesa (nomina vescovi ecc.). Una Chiesa, Gallicana in Francia, prima del ‘Giuseppinismo’ di Vienna. Giansenisti ed illuministi si trovarono di fatto alleati nel considerare la Compagnia il principale ostacolo alle riforme, alla ‘Pubblica Felicità’. Sebbene i regnanti fossero in generale favorevoli ai gesuiti (molti dei quali erano influenti confessori), i loro ministri erano spesso imbevuti di idee delle lumières, anticattoliche.
Le loro pressioni sul Papa, occasionate anche da alcuni particolari eventi, attentato contro il re Giuseppe II del Portogallo, scandali finanziari ecc., furono tali che alla fine, sia pure a malincuore, Clemente XIV promulgò il decreto di soppressione. I gesuiti furono espulsi, nell’ordine, da: Portogallo e colonie (1759); Francia (1764); Spagna e colonie, Napoli e Sicilia, Parma e Piacenza, Malta (1767); Monarchia asburgica (1782). Fu il risultato di una serie di mosse politiche più che di una controversia teologica. Ogni comparazione con i Templari di Jacques de Molay, distrutti e spogliati di ogni bene da Filippo IV di Francia (1312), appare tuttavia azzardata.
Per un’ironia della sorte, la zarina delle Russie, Caterina, che era ortodossa e quindi non si
sentiva legata ai decreti papali, continuò a mantenere i gesuiti che stavano nei suoi domini, anche se di fatto si trattava di terre polacche, allora sotto sovranità zarista. In tutto il resto dell’Europa, nelle Americhe e nelle Indie, 22 mila gesuiti furono dispersi, talora anche brutalmente, le loro 900 scuole e le quasi 2000 tra case e chiese incamerate dagli Stati. Il loro generale, Lorenzo Ricci, fu imprigionato a Castel Sant’Angelo, in una detenzione molto dura, senza possibilità di scrivere, di avere contatti, senza riscaldamento e con scarso cibo. Vi morì dopo due anni. Molti gesuiti spagnoli e portoghesi furono caricati su navi e buttati sulle coste dello Stato Pontificio. Alcuni ne morirono, altri entrarono a far parte del clero diocesano, non pochi rimasero allo sbando.
Vari ambienti cattolici si resero poi conto che la soppressione dei gesuiti era stato un errore e si adoperarono per il ripristino della Compagnia di Gesù che, come detto, avvenne con Pio VII nel 1814, tornando i gesuiti i più fedeli sostenitori del papato. Già considerati i custodi della conservazione e dell’Ancien régime, dopo il 1814 i gesuiti lo diventeranno della Restaurazione, del legittimismo di Metternich, trionfante al Congresso di Vienna del 1815, del rinnovato binomio trono e altare. Meno ricchi, riemergeranno autorevoli ed influenti, pur avendo perso il collegamento generazionale. Si adatteranno ai tempi nuovi, non recupereranno per intero l’antico potere. Ammaestrati dagli errori del passato, i gesuiti si mantennero alquanto nell’ombra, fuori dall’agone politico, focalizzandosi sulle attività tipiche: l’insegnamento, gli esercizi spirituali, le missioni popolari, facendo leva sulla devozione al Sacro Cuore di Gesù, sul culto mariano e su quello eucaristico. In teologia essi rimasero sul terreno ben solido della tradizione tomista, rifiutando il modernismo e le sue derive. Pio IX Mastai Ferretti (un lungo pontificato di 32 anni) temeva i pericoli insiti nella “modernità” e nel Sillabo (1864) ne condannò le deviazioni. I gesuiti furono allora dalla sua parte, consigliandogli l’adozione del discutibile dogma sull’Infallibilità Pontificia, per giunta: il papa, cioè, non può sbagliare quando decide ex cathedra (Concilio 1869).
Nel 1962 la Compagnia di Gesù contava nel mondo circa 36 mila membri (nel 2022 saranno 14 mila, ed in calo); era di gran lunga il più grande Ordine religioso quando iniziò il Concilio Vaticano II (1962-65), che rappresentò una svolta netta nella storia della Chiesa. Il periodo post-conciliare è arduo da decifrare serenamente, non solo per ciò che è successo nella Compagnia, ma in tutta la Chiesa. Per i gesuiti fu un periodo entusiasmante e rovinoso nello stesso tempo. Nel 1965 fu eletto come superiore generale il basco Pedro Arrupe. Sotto il suo governo la Compagnia cercò di attuare le direttive del Vaticano II, interpretate in linea con l’orientamento generale del momento, caratterizzato da una accentuata aspirazione al cambiamento. Venne poi il ’68, con la sua carica di antiautoritarismo e secolarizzazione, che lasciò un marcato strascico sui gesuiti, su quelli, specialmente, più inseriti nel campo intellettuale e sociale. Tale “rinnovamento”, sul quale non mancavano molte perplessità anche all’interno dell’Ordine, avrebbe dovuto essere confermato da una nuova Congregazione Generale, convocata dal ‘papa nero’ Arrupe nel 1974. Durante il suo svolgimento sorsero forti dissapori con Paolo VI Montini, che pur aveva fatto vari danni alla Chiesa con le sue ambiguità progressiste, sottilineando fino alla noia l’ ‘opzione preferenziale per i poveri’ della leonina Rerum Novarum, la Populorum Progressio del 1967 ecc.
Nel 1978 divenne Papa Giovanni Paolo II Wojtyła, che pure manifestò diffidenza verso Arrupe. Il quale nel 1981 fu colpito da un ictus che lo costrinse alle dimissioni. Secondo la prassi, si sarebbe dovuta riunire una nuova Congregazione, ma il Papa bloccò tutto, nominando un commissario. Il nuovo Pontefice polacco era, infatti, preoccupato e scontento per il ruolo avuto dai gesuiti in America Latina – particolarmente in America Centrale – a partire dal post-concilio. Per i collegamenti, le commistioni non solo intellettuali o apologetiche, ma talora logistiche, di non pochi gesuiti con la Teologia della Liberazione e con la sovversione armata, con la guerriglia sostenuta ed armata dal comunismo castrista per conto del KGB sovietico; con la fede nell’avvento di un Rivoluzione politica e sociale. Che occupava menti ed azioni assai più che pastorali volte alla trascendenza evangelica; con la ‘difesa dei diritti umani’ e l’avvento di una maggiore ‘giustizia
sociale’ per bandiere. Proprio mentre in Europa il socialismo reale marx-leninista era in agonia. Un fallimento che in realtà durava dal 1917, dapprima solo in Russia, e nonostante la WWII.
In El Salvador, insanguinato da una cruenta guerra civile, che durerà fino 1992, il nuovo,
vigoroso Pontefice, venuto da un Paese sottomesso alla dittatura comunista, assisterà, alquanto indispettito ed impotente, al sostegno dei chierici progressisti, specialmente gesuiti spagnoli, alle sinistre sovversive, al Frente Farabundo Martí. Ne farà le spese, tra gli altri, l’arcivescovo della capitale, Oscar Arnulfo Romero, non gesuita, referente dei Teologi della Liberazione, forse marxista nell’intimo, certamente strumentalizzato dalla lotta armata, da vivo e da morto. Solito nelle sue infervorate omelie a denunciare le violazioni dei diritti umani, la solidarietà verso le vittime della violenza, affermando nel 1977, che: «La misión de la Iglesia es identificarse con los pobres, así la Iglesia encuentra su salvación». Assassinato nella cappella dell’Ospedale della Divina Provvidenza di San Salvador il 24 marzo 1980 da membri della Guardia Nacional. Papa Bergoglio ne decreterà la sollecita beatificazione e canonizzazione, nel 2015 e 2018, in un evidente tentativo di captatio benevolentiae delle sinistre latinoamericane, spesso al governo dei loro Paesi, ancorché di solito demagogiche, poco efficienti, pasticcione, corrotte. Per non pochi osservatori monsignor Romero fu certamente un martire: non della fede, bensì della politica.
Papa Bergoglio, ‘francescano onorario’, si compiace di ogni consenso, si sforza di risultare popolare e simpatico, magari stipando la sua esuberante silhouette in una Fiat 500, concionando a favore di migranti, sfruttati, malati e diseredati vari, di ecologia, mettendo becco su tutto, incurante di gaffes, a partire da teologia e politica italiana, avversando duramente i ‘tradizionalisti’ amanti del detestato latino, ancor presenti nella Chiesa, o glissando sulle teorie di genere e LGBT; poco curandosi, sembra, che chi lo applaude non varchi mai la soglia di una chiesa… Che cosa avrebbe pensato l’austero Ignazio da Loyola di quel suo primo confratello diventato Papa?

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Gianni Marocco

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