La Rivoluzione proibita della Falange spagnola

Si tratta, certamente, di un lavoro scientifico, costruito su una vasta gamma di documenti, dal quale si evince la padronanza di Bernd Nellessen dell’argomento trattato

La rivoluzione proibita, il saggio sulla Falange spagnola

Il fascismo è stato fenomeno politico europeo. In Spagna ha avuto la sua autentica espressione nella Falange di José Antonio Primo de Rivera. A riportare l’interesse su tale movimento, è la recente pubblicazione di un volume di Bernd Nellessen intitolato, La rivoluzione proibita, nelle librerie per Oaks editrice, con prefazione di Massimo Maraviglia (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 212, euro 18,00). Il libro, tesi di dottorato dell’autore, fu pubblicato in Germania nel 1960. Della sua rilevanza storica si accorse l’editore Giovanni Volpe che lo fece uscire, nel 1965, nel suo catalogo. Si tratta, certamente, di un lavoro scientifico, costruito su una vasta gamma di documenti, dal quale si evince la padronanza di Nellessen dell’argomento trattato. Saggio, pertanto, come precisa Maraviglia, avalutativo, le cui pagine sono costruite da intenzione esegetica sine ira et studio. Nonostante ciò, come mostra il titolo del libro, l’obiettivo ermeneutico dell’autore è del tutto esplicito: chiarire come le grandi idealità della “prima” Falange siano venute meno nel partito unico voluto da Franco, che ne conservò solo il nome. Quella della Falange risultò essere, pertanto, una “rivoluzione proibita” o impossibile.

    Il testo muove dall’analisi dei presupposti storici che hanno reso, in Spagna, la prima metà del secolo XX, una lotta senza quartiere tra due diverse idee di mondo: la liberale e la socialista da una parte, e quella “tradizionale” e cattolica dall’altra. L’autore prosegue, inoltre, con il presentare i personaggi più significativi e le idealità politico-sociali che animarono, fin dalla fondazione, il falangismo. Nellessen si sofferma su José Antonio e Ledesma Ramos, ma non trascura la personalità di Onésimo Redondo, del cenacolo di Valladolid, né sottovaluta la dialettica interna del movimento, che produsse, in alcune circostanze, divisioni insanabili. Viene, inoltre, colto il legame sussistente tra alcune tesi storiche del falangismo e le posizioni espresse in tema dal filosofo Ortega y Gasset. Lo studioso presenta i momenti drammatici della guerra civile, fino a giungere al Decreto di unificazione del 19 aprile del 1937. Con tale atto, Franco, a suo dire, avrebbe smorzato, nel regime personalistico che andava costruendo, l’afflato rivoluzionario-conservatore e nazionale della Falange, al punto che risulta possibile parlare di una prima e una seconda Falange. Queste due diverse esperienze politiche non avrebbero nulla in comune, se non aspetti formali. Nellessen mette in luce il tratto minoritario, élitista e intellettuale, della prima Falange che, per questo, non  avrebbe potuta percorrere altra strada, in quanto il “velleitarismo” di José Antonio e dei suoi, in sé, non era latore di effettivi sbocchi politici.

  In realtà, come colto dal prefatore, il sorgere delle idealità falangiste, rappresentò una sorta di reazione alla cattiva modernità, all’atomismo sociale che andava dissolvendo, perfino in Spagna, in nome dell’utile e dell’economico, l’intero corpo sociale. Due furono i punti centrali attorno ai quali     tale contromovimento, mirato a costruire un’altra modernità, atta a recuperare i valori dell’ hispanidad, si coagulò: la difesa della comunità e della trascendenza religiosa. Ciò comportò, secondo Maraviglia: «da un lato lotta serrata contro la risorgente tentazione del particolarismo, dall’altro affermazione incontrastata della Weltanschauung cattolica» (p. II). Riconquista dell’unità statale legata, naturalmente, al dinamismo proprio alla vocazione imperiale dell’hispanidad: «L’unità dello Stato apre a una trascendenza religiosa e questo […] la salva dal divenire il programma di un imperialismo orizzontale» (p. III). Tale atteggiamento è esemplarmente mostrato dal simbolo della Falange, laddove giogo e  frecce: «esprimono proprio il vincolo che serra in un identico destino tutti gli spagnoli e il dinamismo di una realtà che mai si ferma alle mete raggiunte» (p. III).

    La buona modernità, segnata dal cattolicesimo, nella prospettiva della Falange, si contrappone alla modernità escatologica e utopistica. Si tratta, in qualche modo, del riproporsi del secolare conflitto di Spagna e Inghilterra, da cui, nel 1713, con la pace di Utrecht, uscì sconfitta la prima. All’incipit del ventesimo secolo, tali rapporti avrebbero dovuto essere ribaltati, attraverso la contro-politicizzazione della società spagnola, che cominciava a esser permeata dal giacobinismo illuminista. In tale progetto, la Falange, pur risultando alla fine sconfitta e risucchiata nel fronte anticomunista creato dal Franchismo, non per questo sparì dall’agone politico. Quella resa da José Antonio e da altri appartenenti al movimento, al momento della loro esecuzione, è testimonianza vitale, dal tratto mistico-religioso. I loro corpi offesi, ancor oggi, mettono a tacere i falsi valori della clase discutidora, le cui parole sono vuoto orpello retorico, in quanto: «il testimone produce un taglio nella catena inarrestabile delle argomentazioni, opponendo […] il peso ineguagliabile del proprio corpo ferito» (p. X). Il sacrificio della vita erige un saldo confine tra l’autentica testimonianza e la prudenza vile dei più: «Ovunque tale muro viene costruito, si genera lo spazio per una nuova dignità della politica» (p. XI), chiosa il prefatore.

   Non casualmente, José Antonio ebbe a scrivere che i primi fermenti rivoluzionari non possono esser compresi dalle masse, in quanto queste, vivendo un periodo di decadenza, tendono a perdere il mirabile dono della “luce interiore”. Ecco, l’azione, le idee e la vita del fondatore della Falange, tesero a restituire alle masse contezza di sé, al fine di renderle effettivo soggetto della storia e non  mero strumento oggetto di eterodirezione.   

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Giovanni Sessa

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