Giornale di Bordo. L’uso politico della storia e gli strali di Pannella contro i partigiani (per Via Rasella)

Il 31 marzo 1979 lo storico leader radicale,  durante il 21º congresso del partito, paragonò gli attentatori gappisti di via Rasella ai terroristi rossi che in quei mesi insanguinavano l’Italia

Una immagine del tempo di Via Rasella a Roma

Preferisco non entrare nelle polemiche, decisamente pretestuose, che hanno accompagnato le espressioni con cui la presidente Meloni ha reso omaggio agli italiani vittime della strage delle Fosse Ardeatine. L’abitudine a utilizzare il passato come una sciabola (o, più spesso, come una clava) è tipica di questi anni in cui la conoscenza della storia è inversamente proporzionale alla frequenza con cui la si utilizza strumentalmente. Devo solo constatare che destino di Giorgia Meloni, in questi mesi, è di essere attaccata qualunque cosa dica o non dica. Se a Parigi L’exprès la tratta da “camaleonte”, in Italia continua a essere accusato di non aver reciso le radici neofasciste. Nel caso in questione, se avesse definito le vittime della rappresaglia tedesca antifascisti ed ebrei, sarebbe stata accusata di non considerare italiani gli ebrei; e non oso pensare cosa sarebbe accaduto se avesse osato affermare che anche i territoriali del battaglione Bozen vittima dell’attentato di via Rasella meriterebbero compassione.

E invece, qualcuno lo fece, quando alla piccola Giorgia la mamma cambiava ancora i pannolini; e non fu un neofascista, ma uno dei santoni laici della Prima Repubblica: Marco Pannella. Il 31 marzo 1979 lo storico leader radicale,  durante il 21º congresso del partito, paragonò gli attentatori gappisti di via Rasella ai terroristi rossi che in quei mesi insanguinavano l’Italia:

 

«Se barbari ed assassini sono i ragazzi dell’azione cattolica, Curcio, che, sulla base delle iconografie dei San Gabriele e San Michele, con il piede schiacciano il demonio e diventano giustizieri contro il drago capitalista ed anche loro da giustizieri ammazzano, massacrano e si immolano, allora anche Carla Capponi, la nostra Carla, medaglia d’oro della Resistenza, per averla messa a via Rasella, con Antonello, con Amendola e gli altri, debbono ricordare quella bomba».

 

Le affermazioni di Pannella – che riporto nella versione stenografica, ricca ovviamente di anacoluti, con l’avvertenza che Antonello era Antonello Trombadori – suscitarono ovviamente un vespaio. Giorgio Amendola protestò vivacemente, parlando di “discorso fascista”, e il leader radicale, in visita al congresso del Pci, fu fischiato e attaccato da Luciano Lama nel suo discorso. Ma Pannella non si fece intimidire e in un successivo intervento al congresso radicale rincarò la dose: «Ricordare che erano sud-tirolesi i ragazzi di via Rasella è fare insulto alla Resistenza? (…) vorrei poter portare fiori sulle tombe di quei quaranta ragazzi, il cui nome non è scritto da nessuna parte, se non nella nostra convinzione che non si trattava di cose (come qualcuno sembra credere) ma di persone, di uomini che avevano delle madri, delle mogli, dei figli, che erano capaci di pensare, di sentire, di baciare. È questo un insulto alla Resistenza o non lo è piuttosto pensare che quell’azione militare deve essere vissuta come unanime decisione? Forse che coloro che amano la Resistenza non hanno il dovere di dire che certamente Giorgio Amendola, Antonello Trombadori, Carla Capponi e tutti gli altri compagni del comando militare di Roma si saranno a lungo interrogati (me lo auguro, anzi sono certo che sia così) per decidere se non fosse loro dovere fare quello che fece il povero carabiniere Salvo (D’Acquisto), che si consegnò per farsi giustiziare e tentare di salvare dieci o venti persone? Forse si dirà che da quella parte esisteva una coscienza dell’organizzazione di classe che il carabiniere non aveva, ma forse dobbiamo per questo pensare che non fu atroce decidere di mettere quella bomba per ammazzare quei ragazzi, sapendo che poi sarebbero stati ammazzati 400 ostaggi? E dobbiamo pensare che non fu un tormento la decisione di non consegnarsi? È un’offesa, un oltraggio alla Resistenza dire che i 370 delle Fosse Ardeatine sono morti perché non ci siano mai più 40 ragazzi altoatesini come quelli ammazzati? È un’offesa dire che coloro che giacciono alle Fosse Ardeatine gridano che non vogliono più nessun morto? Nella ricerca tragica e drammatica di affermare i grandi valori socialisti, pensammo di affermarli anche a via Rasella. Allora era quello il modo giusto, ma non è un oltraggio dire che per domani le cose devono essere diverse»

Pannella fu denunciato per vilipendio della Resistenza da Amendola e Trombadori (ma Bentivegna, uno degli attentatori, si dissociò dall’iniziativa) e non mutò mai opinione; né forse è un caso che Francesco Rutelli, suo storico collaboratore nel partito radicale, eletto pochi mesi prima sindaco di Roma, nel commemorare il cinquantesimo anniversario della strage rivolgesse un pensiero anche “agli uomini morti in via Rasella”.

È giusto ricordare tutto questo, anche se sarebbe onesto aggiungere che il rimprovero mosso agli attentatori di via Rasella di non avere fatto come “il carabiniere Salvo” consegnandosi ai tedeschi è infondato. Se si fossero consegnati i tedeschi li avrebbero torturati, strappando loro probabilmente notizie utili a sgominare la rete clandestina della Resistenza. L’attentato proprio non dovevano farlo, e chi, come Ugoberto Alfassi Grimaldi, lo giustificò come “didatticamente utile”, fece soltanto dell’involontario quanto macabro umorismo.

Siccome nella vita e nella storia la tragedia e la commedia spesso si confondono, la sortita del leader radicale ebbe una conseguenza imprevedibile. All’ormai quasi novantenne Rachele Mussolini, poco prima della morte, avvenuta il 30 ottobre 1979, sfuggirono in un’intervista parole di apprezzamento per Marco Pannella e i giornalisti del “Secolo d’Italia” dovettero fare qualche sforzo per minimizzare la portata di quelle dichiarazioni, che avrebbero potuto portare a un’emorragia elettorale dell’elettorato missino a favore del partito radicale. Qualcosa di simile sarebbe avvenuto ai tempi del socialismo tricolore craxiano: lo sfruttamento della rendita nostalgica contava – spiace dirlo – più della difesa della verità.

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Enrico Nistri

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