Artefatti. Ma chi era Henry de Montherlant?

Donato Novellini: "Dannunziano parigino, nobile d’origine catalana, nauseato dalla società, e con una penna più buona di quella del Vate"

Copertina azzurra, al solito elegantemente minimalista, fascetta rossa annunciante quel roboante “Uno jungheriano Trattato del ribelle scritto con vent’anni d’anticipo”, Servizio inutile di Henry de Montherlant proposto da Settecolori lascia prevedere, ancora intonso, grandi soddisfazioni, così pure corrispondenti alte aspettative. Va da sé che il richiamo a Jünger, pur provenendo direttamente da un atto di ammirazione, sorta di affinità elettiva manifestata dal tedesco nei confronti del francese, data la forma diversa dei due testi si giustifica solo in parte: imprescindibile saggio sociopolitico, guida esistenziale il Trattato del ribelle; raccolta di articoli datati anni ‘30, per forza di cose disomogenea, Servizio inutile. Trattandosi di miscellanea un poco ci si insospettisce, giacché una delle piaghe – nemmeno la più grave – dell’editoria contemporanea, consiste nell’attitudine all’assemblaggio postumo, sovente arbitrario, di frammenti trascurati ad autore vivente; non è proprio questo il caso, sebbene permanga una sorta di pregiudizio antologico o di malizioso snobismo nei confronti delle opere minori, vieppiù data la carenza di traduzioni italiane riguardo alle maggiori. Ovviamente è inconcepibile manifestare snobismo di sorta nei confronti di uno snob al cubo come Montherlant, difatti la nostra è solo amorevole voracità, frustrazione per non aver potuto godere per intero della tetralogia de Les Jeunes Filles, inspiegabilmente – vergognosamente si converrà – limitata da Adelphi al solo primo tomo (Le ragazze da marito, traduzione di Cesare Colletta, 2000).

Tornando al libro in questione, varcata la soglia della superba prefazione a cura dell’autore ci si inoltra in un susseguirsi qualitativamente altalenante di pagine. Ciò che lascia perplessi, invero fino più o meno ad un terzo del volume anche annoiati, è l’astrusità mista a rassegnazione, disincanto in qualche caso lambente la banalità, stanchezza d’argomentare che sembra cercare disperatamente un appiglio in frusti esotismi nordafricani, fumisterie gitane, oppure nelle mistiche, indolenti, arretratezze spagnole. Si fatica a riconoscere lo scettico, misogino, alter ego Pierre Costals, quel distacco aristocratico, acuminato ai limiti del cinismo, del protagonista de Le ragazze da marito. Lo scrittore qui appare in affanno, quantomeno rispetto all’elegante alterigia scorta altrove, si direbbe fiaccamente “umano troppo umano”. Il volume si riscatta ampiamente nella seconda parte: L’anima e la sua ombra, Lo scrittore e la cosa pubblica, soprattutto nel pungente pezzo Il possesso di sé, distillato bilioso quanto leggiadro di inimicizia nei confronti dell’informazione, coi suoi sublimi strali assolutamente contemporanei rivolti al reame immaginario e falsificatore della carta stampata; altresì nel frammento conclusivo Lettera di un padre ad un figlio, manuale d’educazione alla libertà e all’indipendenza di giudizio, si ritrova il miglior Montherlant: reazionario senza passare per ottuso, fatalista tutt’altro che arrendevole, stoico in tempo avverso. Abbassa la serranda sul libro un affettuoso scritto di Stenio Solinas, elegantemente malinconico nel soppesare l’oblio al quale sembra essere destinato, con le sue maschere, l’autore di Servizio inutile.

Ma chi fu Henry de Montherlant? Nato morto fuori dal suo tempo, metamorfosato in qualche mito classico, risorto con la penna ispirata dalla lotta greco-romana, dal Bushido e dall’epopea cavalleresca castigliana, reincarnatosi idealmente nell’amato Sigismondo Malatesta, suicida stoico, elegante ghibellino antisentimentale, tolemaico destinato a diventare autore da omaggiare (fu accademico di Francia) e poi da rinnegare ieri, figuriamoci oggi in epoca d’imbarazzante modestia letteraria; orbo reazionario, anarchico di destra sagacemente controverso – gli interessava la Tradizione, ben più delle vituperate polarità liberalismo/comunismo, tant’è che disprezzò come pochi gli U.S.A. – pessimista esteticamente attratto dalle gesta eroiche, resta dalle nostri parti poco conosciuto, abbandonato, monco di traduzioni e approfondimenti – nemmeno fossero i suoi libri pamphlet incendiari alla maniera di Céline – meglio ancora lasciato in sospeso, mummificato in attesa di un misterioso benestare dei piani alti per essere divulgato, come invece sarebbe d’uopo; tuttavia il fantasma di Montherlant sembra ancora nella condizione di potersi scegliere i lettori, gli adepti, gli stravaganti esegeti; pochi invero, affascinati dall’inattuale limpidezza di pensiero e insofferenti alla melassa dell’impegno civile, avversi all’ombelicale cronaca trasposta in letteratura, refrattari al moralismo pedagogico, al servilismo del buon cuore umanitario, perciò meglio sarebbe studiarlo direttamente il francese o affidarsi al colpo di fortuna nei mercatini dell’usato, piuttosto di scorgerlo per caso, il Montherlant in volume, tristo abbandonato su uno scaffale tra un gadget e l’altro in una di quelle librerie moderne, minimali e accecanti, ch’egli avrebbe di certo detestato. Se non fosse una biasimevole pratica collettiva, la causa meriterebbe il lancio della petizione: “Salva anche tu un Montherlant, adottalo, liberandolo così dalla prigionia plebea nelle brutte e oppressive librerie! (e dai fondi di magazzino)”. Nessun seguito pianificato dunque in casa Adelphi, all’oggi ci restano soltanto Le ragazze da marito e Servizio inutile, epperò già quelli in grado di rendere famelici i lettori. Voluttuosamente dipendenti gli iniziati.

Strano caso quello di Montherlant, dannunziano parigino, nobile d’origine catalana, poco mondano anzi nauseato dalla società, e con una penna più buona di quella del Vate, irrequieto come molti scrittori tra le due guerre ma come pochi lontano dalle avanguardie, cattolico (preconciliare, ça va sans dire) per rispetto alla tradizione e al contempo pagano sui generis alla maniera di Nicolás Gómez Dávila, dell’anarca Ernst Jünger o di Carmelo Bene: “I nostri contemporanei sono stupidi, ma prostrarsi ai piedi dei più stupidi di essi significa pregare” (Nostra signora dei Turchi). Cultore della guerra – anzi del duello, e in mancanza di meglio interessato alla trasposizione mitraica, nella ritualistica della tauromachia – eppure non privo di tormenti esistenziali e fanciullesca pietas (giammai di adulta pietà), si distinse per intransigenza stilistica e reazionario eclettismo tipico dell’individualista antiborghese primonovecentesco, elitario assai diffidente per non dire palesemente avverso agli slogan progressisti: pace amore fratellanza e cazzate collettivistiche assortite, già a quei tempi fisime buone per i boccaloni e per la tirannia del conformismo dilagante; tipo umano via via sempre più raro, inattuale al quale sta bene niente dell’epoca volgare nella quale è costretto a vivere, però mica protesta, tantomeno s’indigna o sobilla, anzi rilancia insolente con fabulatorie retrocessioni ammantate di ieratico ascetismo: “L’uomo scivola più facilmente nella stupidità in tempo di pace piuttosto che in tempo di guerra”, “I bambini hanno il potere di istupidire completamente quelle che fino a quel momento erano ragionevolmente soltanto coppie di idioti” e ancora: “Amo molto quei personaggi che, nelle tavole del Quattrocento, sono indifferenti alla scena. Mi ricordano me stesso”.

Fulminante spocchia d’un brontolone giustificata dalla scrittura disillusa ma pungente, talvolta superbamente cinica, consapevole della propria posizione di privilegiata retroguardia, sicché sovente gelidamente ironica, cruccio formale financo masochistico nello snobbare l’andazzo generale, le lodi, quasi raccattandole per fare piacere agli elargitori, targhe, premi, attestati, riconoscimenti inutili; così come altrettanto indifferente, tetragono, si pose a strali, avversioni, isteriche condanne incipriate di fresco moralismo egualitarista (ah! M.me de Beauvoir, la quale definì la sua opera una cafoneria); eppure egli stesso fu un finissimo moralista, certo a suo modo cocciuto a tratti misoneista, benché vessilifero d’una araldica morente si compiacque di spernacchiare con grande stile quella in fieri, il trionfante becero galateo sociale, socievole, sociologico, societario, sole o lampadina bruciata dell’avvenire, nonché le taumaturgie sempre più tracotanti e invasive della scienza, le ipocrisie umanitarie, gli astratti abbracci cosmopoliti, le emotività da femminuccia riadattate ad unico castrante criterio di discernimento.

Condizione privilegiata e ormai estinta dello scrittore: dover rendere conto a nessuno, men che meno ai vituperati, sempre indegni lettori, buoni solo come categoria astratta. Dovrebbero limitarsi a leggere quelli (lo meritassero), che altro pretendere? Presentazioni, confidenze, intrattenimento come funziona oggi? Prostituzione intellettuale. Tant’è che l’ultimo dei geniali impertinenti, l’ultimo grande scrittore italiano, Aldo Busi, lo ficca più volte nel suo romanzo d’esordio Seminario sulla gioventù: “E poi, temo che come uomo non m’interessi affatto. Sarebbe la prima volta che un artista interessante sia anche un uomo interessante”, fa dire a Barbino a proposito dell’eventualità di conoscere personalmente lo scrittore francese, corrispondendo e aggiornando così l’avversione di Montherlant per l’attiguità nefasta ai propri lettori. Ma soprattutto, viene da pensare, alle proprie lettrici.

 

 

 

Donato Novellini

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