Giornale di Bordo. Il governo Meloni e le insidie della Schlein

Al suo attivo il nuovo esecutivo può vantare alcuni provvedimenti in piena sintonia non solo con le promesse elettorali, ma con l’intima natura di una destra conservatrice e liberale

Elly Schlein e Giorgia Meloni

Mi ero ripromesso di non manifestare giudizi sul governo Meloni, soprattutto per non incorrere in un sospetto: quello di esprimere critiche dettate non da un intimo convincimento, ma da un poco nobile sentimento di invidia nei confronti di chi, invece di avere come me lasciato la politica quasi vent’anni fa, incassa oggi i dividendi di un lungo, laborioso e a volte pericoloso impegno militante. Oggi, però, che, finita la “luna di miele”, la nuova premier comincia ad affrontare le prime serie difficoltà, mi permetto di esprimere alcune opinioni e persino di formulare qualche, non richiesto e forse neppure gradito, consiglio.

Al suo attivo il nuovo governo può vantare alcuni provvedimenti in piena sintonia non solo con le promesse elettorali, ma con l’intima natura di una destra conservatrice e liberale (con la e finale, naturalmente). Primi fra tutti il reintegro dei medici non vaccinati, la sospensione delle sanzioni ai refrattari all’inoculazione di un siero di cui appare sempre più evidente l’inutilità, se non la pericolosità, l’inasprimento delle sanzioni contro i rave party abusivi (ovvero tutti), le norme sulle intercettazioni. Provvedimenti liberali nell’accezione più nobile perché tutelano il diritto dell’individuo a disporre del proprio fisico, a vedere tutelate le sue proprietà da orde fracassone di tossicodipendenti nullafacenti, a sapere protetta la riservatezza delle proprie conversazioni telefoniche non dalle intercettazioni in quanto tali, in molti casi necessarie, ma dalla loro illegittima divulgazione. 

Anche sul terreno dell’immagine la Meloni è stata molto equilibrata. Ha mantenuto un profilo cauto proprio in prossimità di una data insidiosa, come il centenario della marcia su Roma, quasi coincidente con il suo ingresso a Palazzo Chigi, ma al tempo stesso ha rifiutato compromessi su quei valori che un tempo la Chiesa considerava non negoziabili. Sulla politica estera, preferisco sospendere il giudizio e sperare che l’allineamento senza riserve sulle posizioni atlantiste costituisca più lo scotto da pagare per essere accettata a livello internazionale che un intimo convincimento. Non perché ritenga auspicabili posizioni neutraliste o addirittura un avvicinamento a Mosca, ma in quanto la continua escalation dell’appoggio Nato a Zelensky, accompagnato dal rifiuto preconcetto di ogni negoziato, che non può non risolversi in un compromesso fra le parti, altrimenti si chiamerebbe diktat, rischiano di costituire la premessa per un terzo conflitto mondiale da cui nessuno trarrebbe vantaggio.

Le ristrettezze del bilancio per le spese pazze dei predecessori

Le prime serie problematiche sono cominciate a emergere quando il governo si è trovato ad affrontare la guerra dei numeri, ereditando la situazione disastrosa ereditata dai predecessori, e in particolare dal secondo governo Conte, con l’introduzione del reddito di cittadinanza e del superbonus sulle ristrutturazioni. Le ristrettezze di bilancio e l’impatto devastante della crisi ucraina sui prezzi dell’energia hanno imposto alla premier scelte impopolari, che si sarebbero potute evitare o delle quali si sarebbe forse potuto limitare l’impatto sociale. Non aver prorogato la riduzione delle accise sui carburanti si è rivelato un passo falso, che per di più ha messo in attrito il governo con i distributori, categoria tutt’altro che pregiudizialmente ostile. Oltre tutto la giustificazione addotta – che lo sconto avrebbe beneficiato soprattutto i ricchi – oltre a suonare demagogica non regge: l’aumento del costo del gasolio pesa sui trasporti, il cui rincaro provoca un aumento dei prezzi al consumo che penalizza tutti, ricchi e poveri, anzi forse soprattutto i secondi. Generosa e a quanto pare feconda è stata invece la ferma presa di posizione del governo a livello europeo, contro lo stop al divieto di vendita delle auto a motore a scoppio fra pochi anni: una norma che, insieme del resto all’imposizione dell’adeguamento energetico per i fabbricati, penalizza questa sì i ceti più deboli. I ricchi fin d’ora non hanno problemi a comprarsi costosissime auto elettriche, divenute già oggi veri e propri status symbol. Coraggiosa, infine, ma necessaria la rottamazione del bonus al 110 per cento, che ha beneficiato solo pochi, anche perché in edifici di pregio storico, come buona parte delle nostre abitazioni, applicare antiestetici “cappotti” sarebbe stato impossibile, e ha provocato invece una vergognosa implosione dei prezzi delle ristrutturazione oltre alle consuete frodi all’italiana.

La ridotta indicizzazione delle pensioni

Vorrei aggiungere che un altro passo falso del governo è stata la ridotta indicizzazione al costo della vita per le pensioni superiori a quattro volte il minimo: penalizzazione non da poco in una fase in cui l’inflazione galoppante erode assegni previdenziali decorosi ma non altissimi. Non lo faccio soltanto perché sono parte in causa, avendo maturato, con 43 anni di contributi, la non astronomica cifra di 2.050 euro. Il mancato adeguamento mi sembra una beffa tanto più che sono scattati automaticamente gli aumenti per le badanti, che, convivendo col datore di lavoro, non risentono ovviamente della crescita dei costi di vitto, alloggio, utenze e spesso mandano gran parte dei salari in patria, senz’altro meritoriamente, visto l’intento di beneficiare le loro famiglie, ma dannosamente per la nostra bilancia dei pagamenti. 

La guerriglia mediatica

I problemi più gravi però si sono cominciati a manifestare quando dalla guerra dei numeri si è passati alla guerra delle parole. Finita la “luna di miele”, si è scatenata contro la Meloni e il suo partito una guerriglia mediatica proveniente non solo dalla stampa o dai social di estrema sinistra, ma anche da organi d’informazione un tempo quasi istituzionalmente filogovernativi.

Tutto è incominciato con Sanremo, a dimostrazione che, con buona pace di Bennato, non sono solo canzonette. Il palcoscenico del festival si è trasformato in una sorta di banco di tribunale per il governo, con un uditore d’eccezione, come il presidente Mattarella, venuto ad assistere alla lezione del professor Benigni sulla “Costituzione più bella del mondo”, tanto bella che il comico toscano aveva votato per la sua modifica. La Meloni ovviamente non ha alcuna colpa, a parte quella di non avere rinnovato prima i vertici Rai, contando sulla correttezza di persone che non hanno meritato la sua fiducia. E che in futuro quando (e se) saranno rimosse giocheranno la parte delle vittime, utilizzando il più seguito, ma anche più vergognoso, Sanremo della storia come una medaglia da appuntarsi sul petto. 

La trappola antifascismo

Si è incominciata a palesare in quell’occasione la trappola mediatica che è prassi corrente allestire contro il governo: utilizzare le celebrazioni della Costituzione per esaltare l’antifascismo (anche se nella Costituzione il fascismo è menzionato solo in una disposizione finale e transitoria, la XII, inserita per ottemperare all’articolo XVII del Trattato di Pace), richiamarsi all’antifascismo come clava per attaccare l’operato del governo, dedurre dal fatto che la destra respinga questa strumentalizzazione l’affermazione che FdI è rimasto un partito neofascista.  

Il caso Cospito

Il secondo serio incidente di percorso del governo Meloni è stato il caso Cospito. L’intervento dell’onorevole Donzelli, che ha accusato alcuni esponenti dem per la visita al terrorista anarchico che ricatta il governo con la minaccia di lasciarsi morire, ha suscitato una ridda di polemiche che sono troppo note perché sia necessario ricordarle. Sotto un profilo astrattamente giuridico, Donzelli poteva anche aver torto: visitare i carcerati, oltre che un’opera di misericordia prevista dal catechismo, è un diritto-dovere dei parlamentari. Altro però è una questione di legalità, altro una questione di opportunità. Detto in altri termini, la visita a Cospito, che ricatta il governo con il suo prolungato digiuno, ottenendo ampi spazi di solidarietà in quella zona grigia compresa fra la sinistra dem e i covi anarchici, ha lanciato un segnale controproducente che era legittimo denunciare, senza per altro accusare di collusioni con la mafia i Dem. È onesto ricordare che quando l’allora palamentare Pd Ivan Scalfarotto nel luglio del 2018 si recò a visitare a Regina Coeli i due giovani statunitensi accusati dell’assassinio di un carabiniere, a prendere le distanze dal suo gesto fu lo stesso segretario del partito Zingaretti. Più sottile la questione concernente la divulgazione di intercettazioni riservate; ma su questo sarà la giustizia a fare il suo corso. E comunque, se non altro per rispetto a Montesquieu e alla teoria della separazione dei poteri, è giusto ricordare che la composizione del governo non può dipendere dalle scelte dei pubblici ministeri.

Lo scontro tra studenti a Firenze

Ben più gravi gli sviluppi dell’episodio che ha fatto di Firenze il centro della politica nazionale:  lo scontro davanti al Liceo Michelangiolo fra alcuni militanti di Azione Studentesca, venuti a distribuire volantini, e alcuni esponenti del Collettivo Sum, già protagonisti di un’occupazione durante la quale le mura dello storico istituto, ubicato in un monastero cinquecentesco furono deturpate da scritte e manifesti a favore del terrorista Cospito e contro il regime del 41 bis. Gli studenti di sinistra, dopo avere insultato e preso a spintoni i protagonisti del volantinaggio, hanno avuto la peggio. Un episodio deprecabile e allarmante, soprattutto per chi, come me, ha vissuto e sofferto le tristi lotte fra ragazzi della via Pal degli anni Settanta, ma tutt’altro che tragico, come dimostrano i referti – cinque e sei giorni – riportati dai soccombenti nell’aggressione. Quando ne lessi la notizia nella cronaca dei quotidiani locali, mi venne, lo confesso, da sorridere: più che di un caso da cronaca nera, mi era parso un reperto di modernariato, come sarebbero potuti essere un eschimo, un ciclostile, magari un loden o un paio di pantaloni a zampa d’elefante. Che nell’era della comunicazione digitale dei ragazzi cresciuti a whatsapp e Nutella potessero accapigliarsi per dei volantini mi fece meno scandalizzare che sorridere.

Logica avrebbe voluto che il compito di ricostruire l’effettiva dinamica degli eventi spettasse alle autorità giudiziarie e alla Digos; lo scontro si è invece trasformato in uno psicodramma collettivo culminato con la manifestazione di sabato 4 marzo a Firenze. Ad aggravare la situazione è stata la circolare dalla dirigente scolastica di una scuola non interessata agli eventi, che prendendo spunto dai fatti ha pubblicato un sermone antifascista che in realtà era un pretesto per attaccare il governo in carica demonizzandone alcuni capisaldi: il culto della terra dei padri (ovvero della Patria, parola che anche nella beneamata Costituzione si scrive con la P maiuscola) e la difesa delle frontiere.

La risposta del ministro dell’Istruzione – esponente leghista, ma con un fecondo passato come responsabile Scuola di Alleanza Nazionale – è stata pronta: il titolare della Minerva non ha criticato la preside perché condannava il fascismo, ma in quanto, utilizzando il suo ruolo pubblico, denunciava una deriva fascista del tutto immaginaria. Una dichiarazione del tutto corretta, a parte le righe finali, paragonabili un po’ al quos ego di virgiliana memoria: “se l’atteggiamento dovesse persistere  vedremo se sarà necessario prendere misure”. 

I meriti di Valditara

Resto però dell’avviso che, a parte questo involontario accostamento al Nettuno dell’Eneide, Valditara sia il miglior ministro dell’Istruzione che il centrodestra potrebbe oggi esprimere e che, a un secolo dalla riforma Gentile, tante volte tradita da fascisti e antifascisti, potrebbe imprimere alla nostra disastratissima scuola una svolta risanatrice. Le isteriche e in certi casi criminali reazioni che hanno fatto seguito alla sua dichiarazione, con tanto di impiccagione in effigie, ovviamente a testa in giù, sua e della premier, sono un’ennesima conferma del fatto che i sindacati degli insegnanti più rappresentativi (ormai lo Snals, un tempo maggioritario, ha perso adesioni e consensi) si sono trasformati in una lobby che ha poco a che vedere con la tutela dei diritti e della dignità del docente. L’aspetto più grottesco della situazione è che l’attuale ministro è uno dei pochi ministri inquilini di viale Trastevere che si sono preoccupati di proteggere i professori dai sempre più frequenti casi di violenze da parte di alunni, prevedendo per loro il patrocinio da parte dell’avvocatura dello Stato, e di sollecitare adeguamenti salariali per chi lavora in realtà scolastiche a rischio o in località in cui il costo della vita è insostenibile.

La tragedia di Cutro

Come la ciliegina sulla torta, è arrivato il tragico naufragio di Cutro, ennesima dimostrazione di come ormai trentadue anni di lavaggio del cervello abbiano cambiato il sentire comune nei confronti dell’immigrazione clandestina. Se in occasione del primo sbarco abusivo sul territorio italiano il presidente della Repubblica Cossiga minacciò di rimuovere l’allora sindaco di Bari, che aveva criticato in un’intervista al Manifesto l’operato del Governo nei confronti degli albanesi sbarcati abusivamente, oggi è entrato nel sentire comune il convincimento che sia dovere del governo discolparsi se un’imbarcazione travolta dalle onde per il cinismo e l’imperizia degli scafisti non è stata soccorsa in tempo. E se un ministro dell’Interno osa affermare una verità lapalissiana, ovvero che è da incoscienti mettersi in mare mettendo a repentaglio la vita propria e dei propri congiunti scatta il linciaggio mediatico, e una strumentale quanto retorica richiesta di dimissioni.

Anche in questo caso, credo che sarebbe opportuno, più che uno scontro politico-parlamentare (o peggio fisico, come quello erroneamente accettato dai giovani fiorentini), un confronto culturale: opera non facile, se i gangli vitali del potere mediatico rimangono sotto l’egemonia culturale neomarxista e se chi desidera farsi strada nel mondo del giornalismo, della cinematografia, della televisione deve scendere a patti con il potere dominante. Un soft power, come va di moda dire oggi, ma che alla resa dei conti rischia di rivelarsi terribilmente hard. È bene non dimenticarlo, in un’era in cui le rivoluzioni non si fanno con i golpe militari, ma su internet. E se qualcuno dovesse scrivere “Tecnica del colpo di Stato” non si chiamerebbe Malaparte, ma Soros, il referente europeo di Elena Ethel Schlein, in arte Elly.

@barbadilloit

Enrico Nistri

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