La poesia antimoderna di Vittorio Orlando

La vocazione poetica dell'autore sorge di fronte al senso di perdita e di smarrimento che si prova a cospetto del pauperismo spirituale dell’Età Ultima

La copertina del libro di Vittorio Orlando

Nell’ultimo periodo, in più di una circostanza, ci è capitato di rilevare come, nell’epoca attuale, la creatività poetica sia divenuta sempre più rara, dono di pochi. È, pertanto, con particolare curiosità che ci siamo rivolti alle pagine di una recente raccolta di componimenti di Vittorio Orlando, Una voce nel deserto edita da Amazon (per ordini: vittorio.v2020@gmail.com, pp. 102, euro 12,00). Il volume è prefato da Davide Morelli e da Gaia Ortino Moreschini e chiuso dalle “Note finali” di alcuni tra i compagni d’avventura poetica del Nostro. L’autore, in versi denotanti un’intensa e sofferta ricerca formale, presenta, con lucidità estrema, disincantata, la realtà lacerata della vita contemporanea.

   La vocazione poetica in Orlando sorge di fronte al senso di perdita e di smarrimento che si prova a cospetto del pauperismo spirituale dell’Età Ultima, di fronte alla dismisura delle potenze del giorno, tese a trasformare il cosmos in caos ritornate. Il caos e l’informe connotano le nostre vite, tanto esistenzialmente quanto in termini comunitari e politici. L’ubi consistam della poetica di Orlando, pertanto, va colta nel suo tratto antimoderno. Ciò rende questa poesia del tutto originale, non nel senso di creazione lirica fortemente “personalizzata”, ma nel senso della trascrizione della ricerca dell’origine, intensamente vissuta dall’autore. Orlando non appartiene, date tali premesse, ad alcuna scuola o corrente, è estraneo agli ismi del Novecento. Il suo colloquio con l’Antico, rende sofica, sapienziale la sua testimonianza. Una testimonianza tesa a trasmettere al lettore-uditore il senso di una vita piena, persuasa, appagata. In essa cadono, vengono meno le distinzioni dualiste imposte dal logocentrismo, dal concettualismo imperante. Egli scrive: «Per opposti mi fu negato/Il lato oscuro dell’assoluto/troppo immenso da abbracciare […]/ chiuso da un grande sipario» (p. 10).

   Lungo la Via, il poeta acquisisce coscienza di sé stesso: «Sono essenza/distillata di pietra/lanciata nello stagno/senza concentrici cerchi/senza tonfo/ senza rumore/nell’immenso oblio del tempo» (p. 27). La voce del poeta è oscurata, tacitata dal chiacchiericcio contemporaneo: «Funestata è la via del Poeta e alla gogna/ e alla solitudine di volute ragionate scientificità. L’incancrenito popolo sta alla finestra/ come l’impotente sulla venerea fessura di incallite spettrose puttane» (p. 29). Quella del creare poetico è lotta per il Nulla. In tale contesto: «l’araba fenice/ si ricompone nel fecondo/ e nascosto deserto» (p. 28).  La solitudine pare inevitabile, destino inscritto nella poesia che rischia di trasformarsi in vox clamantis in deserto: «Nel visibile, nascosto/ il nunzio è tra la folla/ ad annunciare la novella,/ la novella del nulla/dove l’essere e il non-essere/ si confondono» (p. 34). Nell’apparente sconfitta, nel destino di solitudine, nella ri-conquistata “isola dell’Io”, la versificazione antimoderna vede, intuisce l’origine, la coincidentia oppositorum.

   Così, la creatività farà rifiorire: «i gigli calpestati da orde barbariche/ […] tra sassi e macerie» (p. 43). Questa è l’ “arcana speranza” che muove la versificazione in un mondo che: «va sempre più giù» (p. 50). Nella modernità, al poeta non resta che esclamare: «Temo il dormiente demo,/odo l’eco democratica/ nella fetida aria di acido etilico/ che combacia con il cicaleccio nei fiordi» (p. 60) La denuncia sociale è presente in modalità prioritaria nei versi di Orlando. Egli lancia strali contro l’omologazione generalizzata, contro il fragore dirompente della globalizzazione e dei suoi falsi aedi, in nome della Libertà calpestata nei fatti e nelle parole. Essa oggi è: «vigilata/controllata/obilterata» (p. 60) Orlando ha contezza del tratto epidemico, in senso etimologico, della democrazia liberale. Di essa ha detto esemplarmente il filosofo Andrea Emo.  Sa, inoltre, con Carlo Michelstaedter, cui è dedicata una lirica, filosofo della persuasione che produsse all’inizio del secolo scorso un esempio luminoso di pensiero-poetante, che il desiderio-rettorico chiude l’Io in un destino di morte: «Ogni alba radiosa/annuncia il senso provvisorio della vita» (p. 65).

   Non sia tratto in inganno il lettore, la pars destruens in Orlando è seguita da una pars construens. Essa è data dall’immersione nella dimensione originante della physis, della natura: «Lo spirito indomito/mi riporta a ricredere nel possibile della natura,/ la luce è il risveglio dall’appannamento notturno» (p. 67). Il poeta si immerge e ci immerge, almeno in alcuni versi, nel lucore mediterraneo, laddove vita e civiltà sorsero all’unisono. L’orizzonte della physis, il suo reale trascendere la “nostra” vita, è simbolo di risveglio, di riscatto dall’infamia insolente del presente. Essa indica la Via da seguire: «agogno un deserto sabbioso/con dune che si lasciano sfiorare,/sfiorare/ dalla carezza di un dolce vento/che rimodella il sacro divenire,/divenire/ di attesa che porta sulla giusta via./»

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Giovanni Sessa

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